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La quarta edizione del Festival Internazionale di Fotografia di Vogue Italia dedicata al terreno comune fra Etica ed Estetica presenta la mostra “Inez & Vinoodh Hi-Lo Transformerscurata da Francesco Bonami a Palazzo Reale, dal 31 ottobre al 13 novembreI due artisti offrono al pubblico una nuova e ancor più sorprendente opportunità di immergersi nel loro mondo, spettacolare e al tempo stesso intimo, attraverso dipinti low-tech e un video high-tech che riassume la loro lunga e intrigante carriera e opera. Un'opportunità davvero unica per imparare a comprendere la loro arte e il loro rapporto con i mutamenti continui della cultura contemporanea.

Fin dagli esordi della loro collaborazione Inez & Vinoodh hanno scelto di utilizzare i sempre più sofisticati strumenti fotografici tecnici e digitali, non per produrre un senso di stupore o ostentare una vuota abilità di tipo formale, ma per creare contenuti. Il mutamento dei loro soggetti riflette il mutamento dei sentimenti e delle emozioni nella società contemporanea. Per loro il coinvolgimento dello spettatore non si limita allo sguardo, ma si espande, per arrivare agli strati emozionali dell’immagine. 

La mostra comprende una serie di immagini iconiche di I&V trasformate in grandi cartelloni dipinti a mano esposti all’interno delle sale, bellissime e riccamente decorate, negli appartamenti privati del Principe. Il risultato è un dialogo forte e quasi discordante fra lo stile fotografico degli artisti, il contesto sfarzosamente decorato e l’arte diretta e grezza dei cartelloni pubblicitari dipinti a mano.

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La quarta edizione del Festival Internazionale di Fotografia di Vogue Italia dedicata al terreno comune fra Etica ed Estetica presenta la mostra “Inez & Vinoodh Hi-Lo Transformerscurata da Francesco Bonami a Palazzo Reale, dal 31 ottobre al 13 novembreI due artisti offrono al pubblico una nuova e ancor più sorprendente opportunità di immergersi nel loro mondo, spettacolare e al tempo stesso intimo, attraverso dipinti low-tech e un video high-tech che riassume la loro lunga e intrigante carriera e opera. Un'opportunità davvero unica per imparare a comprendere la loro arte e il loro rapporto con i mutamenti continui della cultura contemporanea.

Fin dagli esordi della loro collaborazione Inez & Vinoodh hanno scelto di utilizzare i sempre più sofisticati strumenti fotografici tecnici e digitali, non per produrre un senso di stupore o ostentare una vuota abilità di tipo formale, ma per creare contenuti. Il mutamento dei loro soggetti riflette il mutamento dei sentimenti e delle emozioni nella società contemporanea. Per loro il coinvolgimento dello spettatore non si limita allo sguardo, ma si espande, per arrivare agli strati emozionali dell’immagine. 

La mostra comprende una serie di immagini iconiche di I&V trasformate in grandi cartelloni dipinti a mano esposti all’interno delle sale, bellissime e riccamente decorate, negli appartamenti privati del Principe. Il risultato è un dialogo forte e quasi discordante fra lo stile fotografico degli artisti, il contesto sfarzosamente decorato e l’arte diretta e grezza dei cartelloni pubblicitari dipinti a mano.

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La quarta edizione del Festival Internazionale di Fotografia di Vogue Italia dedicata al terreno comune fra Etica ed Estetica presenta la mostra “Inez & Vinoodh Hi-Lo Transformerscurata da Francesco Bonami a Palazzo Reale, dal 31 ottobre al 13 novembreI due artisti offrono al pubblico una nuova e ancor più sorprendente opportunità di immergersi nel loro mondo, spettacolare e al tempo stesso intimo, attraverso dipinti low-tech e un video high-tech che riassume la loro lunga e intrigante carriera e opera. Un'opportunità davvero unica per imparare a comprendere la loro arte e il loro rapporto con i mutamenti continui della cultura contemporanea.

Fin dagli esordi della loro collaborazione Inez & Vinoodh hanno scelto di utilizzare i sempre più sofisticati strumenti fotografici tecnici e digitali, non per produrre un senso di stupore o ostentare una vuota abilità di tipo formale, ma per creare contenuti. Il mutamento dei loro soggetti riflette il mutamento dei sentimenti e delle emozioni nella società contemporanea. Per loro il coinvolgimento dello spettatore non si limita allo sguardo, ma si espande, per arrivare agli strati emozionali dell’immagine. 

La mostra comprende una serie di immagini iconiche di I&V trasformate in grandi cartelloni dipinti a mano esposti all’interno delle sale, bellissime e riccamente decorate, negli appartamenti privati del Principe. Il risultato è un dialogo forte e quasi discordante fra lo stile fotografico degli artisti, il contesto sfarzosamente decorato e l’arte diretta e grezza dei cartelloni pubblicitari dipinti a mano.

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La London Art Week vede anche quest'anno lo svolgersi di importanti fiere d'arte nella capitale londinese. Da Other Art Fair - la fiera per artisti emergenti di Saatchi - alla fiera di Urban Art Moniker, fino a Pad, dedicata al design e all'arte moderna, innumerevoli sono le gallerie d'Europa e di tutto il mondo coinvolte nelle esposizioni.
La parte del leone la fa ovviamente Frieze, nella sua triplice declinazione: Frieze London e Frieze Masters, con l'aggiunta di Frieze Sculpture, che vede nuovamente - già da tutta l'estate - il Regent's Park ospitare una serie di importanti opere di scultura outdoor.
Le gallerie presentate da Frieze sono 160, coinvolte in un contesto che - grazie ai curatori del board Diana Campbell Betancourt, Andrew Bonacina e Laura McLean-Ferris - si discosta dal più classico concetto di "fiera d'arte" per avvicinarsi, tramite le sezioni tematiche e l'attenzione alla programmazione, ad una grande esibizione collettiva. Con una particolare attenzione al tema centrale di questa stagione, ovvero il fatto che le artiste donne siano ancora poco rappresentate nel mondo dell'arte, specialmente in quello del suo mercato.

 

Urs Fischer "Francesco" 2017 Sadie Coles HQ - London
Un uomo, scolpito in maniera realistica ma con carne e barba dal color rosso acceso è in piedi in cima a una frigorifero, guardando il suo smartphone. E' un gioco contraddittorio sulla classica scultura con piedistallo. Il soggetto dell'opera è Francesco Bonami, famoso curatore italiano e recente apolgeca di Damien Hirst. Ma non è tutto come sembra: questa è una delle sculture di Fischer fatte con cera di paraffina. E' una candela, e nello spirito dell'arte degli anni '60, è "autodristuttiva". Perchè l'opera sia compiuta il suo stoppino deve essere acceso e deve sciogliersi. Se un collezionista la acquista, i costi di produzione possono essere pagati, può essere ricostruita ed il ciclo ricominciare.
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Intervista a Francesco Bonami

Venerdì, 07 Giugno 2013

Scenario: il PAC, ovvero il Padiglione di Arte Contemporanea di Milano. È ancora in corso l’esposizione di Jeff Wall (NDA: ci sono stata qualche mese fa, è bellissima: se amate la fotografia andateci assolutamente), e il museo si fa per l’occasione location di un evento particolare:  la presentazione del nuovo libro di Francesco Bonami, critico e curatore di fama internazionale.
Tra orde di giovani fan di Bonami che lo cercano ed invocano quasi fosse una rockstar, battute del crititco, botta e risposta di Bonami e Pif, ad un certo punto una elegantissima signora sbotta. “Scusate eh!, però io non capisco tutto questo avanspettacolo… e ancora non si è parlato del libro! No, cioè, perché se uno viene a una presentazione di un libro si aspetta di sentire parlare del libro…”
Il Nostro non si scompone. Invece, risponde alla signora distratta (che nel frattempo continuava a dire la sua): “Beh signora, se lei comprerà il libro – che a questo punto le sconsiglio di comprare se questo tipo di atmosfera non è di suo gradimento – noterà che del libro abbiamo parlato, eccome.”

Ed è veramente così. “Mamma voglio fare l’artista!” (Electa) è effettivamente un vademecum che, come indica il sottotitolo, fornisce all’aspirante artista delle “istruzioni per evitare delusioni”; ma il tutto è scritto in chiave spesso ironica, divertita e divertente. Ed è – sostanzialmente – un’autobiografia. Il fatto che venga trattata tra il serio e il faceto, quindi, ci rasserena. Perché ci fa capire che Bonami ha superato alla grande tutti i traumi dovuti alle sue delusioni. E ora non abbiamo in lui un grande artista, ma tant’è: abbiamo comunque un Maestro. Inteso come guida e punto di riferimento.

Anche se su questo termine si può far confusione, almeno in Italia…
Proprio parlando di ciò ho iniziato la mia intervista a Francesco Bonami.

Francesco Bonami e Pif

E’ molto interessante il discorso che ha fatto nel libro sul termine “Maestro” (che viene indicato come il massimo titolo possibile, più che “Dottore” o “Professore”), ma forse è davvero chiaro solo nei paesi anglosassoni. Si figuri che una volta ho chiamato Maestro Bonito Oliva e lui mi ha risposto piccato “… io non insegno mica alle elementari!” Ho dovuto ripiegare su “Professore” per ammansirlo. Ma è possibile che lo stesso Bonito Oliva, che di maestri dovrebbe intendersene, faccia confusione sul termine?
Beh, è questione di come ognuno vede se stesso. Chiaramente – in modo particolare in Italia – il termine “professore” è più altisonante. “Maestro”, pur potendo intendersi più in generale come riferito a una figura estremamente autorevole e illuminante, di solito si riferisce ad un artista. Quindi, non essendo lui artista, forse da un punto di vista tecnico non è un maestro; e il maestro che potrebbe essere sarebbe quello delle elementari. Purtroppo, però, Bonito Oliva non insegna alle elementari, il che sarebbe meglio, perché potrebbe dire delle cose interessanti anche ai bambini.

 

Nel libro, lei paragona il grande Artista ad un Papa, che non dovrebbe accontentarsi di rimanere un umile parroco. Lei era convinto di poter diventare Papa e quindi di poter predicare il Verbo, invece è diventato un ottimo teologo. Come ha vissuto questa realtà? è stato un ridimensionamento o una riscoperta di sé?
Accidenti… ma questa è una domanda.. come si dice, è stato giocoforza. Uno scopre di non poter aspirare ad essere Papa: a quel punto può decidere di essere un ottimo parroco di una parrocchia di città o paesello, può decidere di farsi frate, può decidere di incattivirsi e diventare un terrorista, oppure può diventare un teologo… Ora, teologo mi sembra una parola molto grossa. Diciamo che mi sono riciclato, ho fatto buon viso a cattivo gioco, non potendo diventare Papa ho provato a capire perché ci sono persone che diventano Papa.

 

Quanto pensa che questo libro sia veramente utile? Sembra che lei voglia dare dei consigli agli aspiranti artisti. Ma un vero artista non dovrebbe ritrovarsi a fare questo percorso naturalmente da solo?
Il libro ha parecchio di autobiografico, di fatto io racconto la mia storia. E va detto che molto spesso quando io ho letto, ho visto e osservato la storia degli altri ho imparato delle cose. Quindi, spero che leggendo il libro si possano imparare delle cose. Non che venga seguito per filo e per segno: fare l’artista richiede anche un grosso egocentrismo e quindi anche una capacità di non ascoltare gli altri. Quindi immagino che molti lo leggeranno e saranno contrari a quello che dico, oppure che molti lo leggeranno e faranno finta di aver capito, ma poi si comporteranno ugualmente a modo loro.
Io l’ho scritto non con l’intento di fornire delle regole “da seguire alla lettera”, ma conscio del fatto che certi input entrano dentro la testa e magari uno se li ricorda in determinate situazioni. Che so, magari un giorno un artista sta per attraversare la strada per placcare un critico e assillarlo con le proprie opere, gli torna in mente quello che ho scritto io e si dice “No! Non lo faccio!”, evitando di crearsi un’antipatia. Anche se poi sicuramente ognuno certe cose deve viverle sulla propria pelle.

 

Se un giorno arrivasse suo figlio da lei e le dicesse: “Papà, ho deciso, voglio fare il prete!” Come reagirebbe?
Beh, io sarei contento.

 

…o il terzino? (NDA: il libro inizia proprio dal racconto di Bonami che, da piccolo, si vedeva costretto a fare il terzino assieme ai compagni più scarsi)
Il terzino mi preoccupa, perché il prete in fondo è più vicino all’artista; non ho alcun disprezzo verso i preti, fare il prete è già un sacrificio, uno lo fa e accetta già il fallimento, nel senso che convertire la gente è più difficile che convertirla alla propria arte. Quindi, se volesse fare il prete mi preoccuperei più che altro perché è una vita faticosa.  Se volesse fare il terzino, mi stringerei nelle spalle perché non è una questione di vocazione. Però sono sicuro che da padre…

 

Ha figli?
Sì, ne ho due. E sono femmine. Quindi – almeno per ora – non possono dirmi di volersi fare prete. Però potrebbero dirmi di volersi fare monaca o suora. Non potrei che accettare, io credo che le vocazioni vadano tutte rispettate. Come dicevo, invece, quella del terzino non è una vocazione: è una fortuna se uno gioca veramente molto bene, o una sfortuna se gioca così bene da trascurare di sviluppare il cervello esclusivamente a vantaggio delle gambe inferiori…

Va beh, le gambe son sempre inferiori.

 

E dopo quest’ultima frase, che ha magicamente ricondotto la nostra chiacchierata nell’alveo dell’atmosfera da avanspettacolo, con la signora che ancora strepitava, lasciai il Maestro Bonami in pasto ai suoi giovani fan.
Speriamo che leggano con attenzione il suo libro.

 

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Takashi Murakami a Milano

Lunedì, 28 Luglio 2014

“Il Ciclo di Arhat“, a Palazzo Reale fino al 7 settembre, è la prima mostra di Takashi Murakami  in uno spazio espositivo pubblico italiano. Si tratta di opere recenti di pittura e scultura di grandi dimensioni, che raccontano la svolta del celebrato artista nipponico, definito nel 2008 dalla rivista Time il più influente rappresentante della cultura giapponese contemporanea.

E se consideriamo il fatto che il baricentro dell’arte si è già da tempo spostato con decisione verso quel lato del mondo, non è certamente una definizione da poco.

 

 

E Murakami è fortemente giapponese: con la sua opera vuole nobilitare la cosiddetta subcultura Otaku (che si rifà al mondo dei manga, degli anime e dei videogames) e sottolinearne l’importanza in relazione al Giappone contemporaneo; e, al contempo, intende promuovere il valore di un’arte del Sol Levante completamente autonoma da influenze occidentali.

E ci riesce benissimo: l’unica influenza che l’occidente ha esercitato sull’artista è il suo modo di rapportarsi col marketing (le borse da lui disegnate per Vuitton ne sono l’emblema più significativo) e con l’organizzazione (che per certi versi ricorda la Factory di Warhol, per altri gli studios Disney) del proprio lavoro e di quello degli artisti con cui si relaziona.

 

Un Arhat, nel buddismo, è  un essere che ha compiuto il medesimo percorso del Buddha ed è a un passo dall’illuminazione: gli Arhat di Murakami, di fronte all’ineluttabilità del fato, intendono aiutare gli uomini ad andare avanti dopo i recenti disastri di Fukushima e del terremoto e maremoto del Tōhoku del 2011. Tre dipinti enormi, di oltre 10 metri di lunghezza, e la grande scultura Oval Buddha Silver sono ospitati – per nulla casualmente – nella Sala delle Cariatidi.

 

La mostra è curata da Francesco Bonami, a cui abbiamo posto alcune domande.

 

Com’è possibile che un artista di fatto lowbrow riesca ad arrivare ad esporre al MOMA o alla reggia di Versailles? In cosa si differenzia da tanti altri e quali novità ha portato rispetto a molti suoi contemporanei e simili?

Come tutti i grandi artisti, Murakami ha inventato il suo linguaggio. E si tratta di un linguaggio molto particolare, perché è riuscito a integrare perfettamente la cultura giapponese contemporanea – che ormai tutti conosciamo – con i miti della cultura giapponese antica. Il sorprendente risultato è una forma di pop art nipponica assolutamente unica. Credo che questo sia un segno inconfondibile, un’unicità che lo rende molto attraente per i musei di tutto il mondo.

Nel mondo occidentale c’è qualcuno che riesca a fare questo? Portare avanti l’arte classica ma rendendola in chiave moderna come fa lui, senza maniera e senza citazionismo? Non mi viene in mente nessuno…

L’unico che può fare testo è Charles Ray, lo scultore di Los Angeles che divenne particolarmente noto da noi per aver messo ‘Il Ragazzo con la Rana’ sulla Punta della Dogana di Venezia. Incredibilmente, gli rimossero l’opera perché era troppo contemporanea. Ma è esattamente questa la sua ricerca: lui tenta di capire come sia possibile fare una scultura classica calata nell’epoca contemporanea. In effetti, però, dalle nostre parti questi casi sono rarissimi. Credo che sia in gran parte dovuto al fatto che l’Occidente, a differenza del Giappone, non abbia mai avuto quei momenti di chiusura e di forzata autoriflessione – spesso in seguito ad eventi disastrosi e drammatici come fu ad esempio la bomba atomica – che hanno letteralmente resettato un modo di pensare e di vivere secolare. Un processo fondamentale per poter costruire linguaggi nuovi, armonicamente correlati alla propria storia passata. Noi – in particolare noi italiani, peraltro – ci rapportiamo col nostro passato in modo troppo nostalgico. Murakami non ha alcuna nostalgia ed è quello che credo sia la sua grande forza. La nostalgia porta a volersi identificare con il passato, e non invece ad interpretarlo, rielaborarlo, ricostruirci sopra.

La scelta di porre opere che testimoniano disastri nella sala delle cariatidi di chi è stata? Mi pare una scelta simbolica, ricorda quella di Picasso con Guernica del 1953…

Effettivamente è una scelta di quel tipo. L’abbiamo pensato e ne abbiamo parlato con Murakami: non volevamo fare una retrospettiva, e volevamo invece fare qualcosa di fortemente simbolico proprio in questo spazio. Glielo abbiamo mostrato, e lui ne è rimasto molto impressionato. Gli era piaciuta molto anche la biblioteca Ambrosiana, ma la Sala delle Cariatidi sembra fatta apposta per il discorso dell’artista: è uno spazio che rimase vittima di un incendio causato dai bombardamenti che ne distrussero il tetto e il pavimento di legno, è rimasto a lungo senza copertura, e gli agenti atmosferici hanno poi completato la distruzione. Un po’ quello di cui parlano le recenti opere di Murakami, della follia umana e della forza incontenibile della natura. Credo quindi che questi lavori, collocati in questo posto, assumano una forza particolare, superiore.

Secondo lei possiamo definire queste grandi opere di Murakami come un esempio di moderna arte sacra?

Direi assolutamente di sì. L’arte religiosa nasce per confrontarsi con i misteri del nostro mondo. Lui prima faceva un’arte molto leggera, piatta e “superficiale”, che lui stesso chiamava “superflat”, ovvero superpiatta; adesso, invece, ha creato un’arte molto profonda perché generata da una riflessione sulla realtà e sui disastri che hanno colpito la sua società e anche lui personalmente: Murakami viveva a Tokyo con la sua famiglia, e ha deciso di trasferirsi a Kyoto per evitare al figlio le possibili conseguenze delle radiazioni. Credo che abbia sentito veramente e profondamente, come tutti i giapponesi, il senso dell’ineluttabilità del destino. Per questo ha dovuto necessariamente cambiare approccio con la propria espressione, e di conseguenza anche stile. E questa nuova arte di Murakami è decisamente un’arte religiosa.

 

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