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Art Basel a Miami Beach si svolge dal 5 dicembre al 8 dicembre 2019. Nel contesto del rinnovato Convention Center riunisce 269 tra le maggiori gallerie a livello mondiale, presentando opere che vanno dall’arte moderna dei primi del 20° secolo ad oggi. Mentre le gallerie degli Stati Uniti e dell’America Latina hanno continuato a essere fortemente rappresentate, la mostra ha proposto anche espositori internazionali, provenienti da Asia, Europa ed Africa. Quest’anno inoltre è stato lanciato il nuovo settore “Meridians”. A cura di Magalí Arriola, direttore del Museo Tamayo, è stato allestito come uno spazio espositivo senza colonne di quasi 6.000 metri quadrati e ha presentato 34 tra sculture su larga scala, dipinti, installazioni, proiezioni di film e video, nonché spettacoli. Non hanno fatto mancare la propria presenza i collezionisti privati provenienti da Europa, Americhe, Asia, Africa e Medio Oriente, oltre a rappresentanti di circa 200 musei e istituzioni.
Tra le gallerie italiane presenti a Miami, la Galleria Mazzoleni ha esposto Alberto Burri, Jannis Kounellis, Lucio Fontana. La Galleria Cardi ha presentato opere di Carla Accardi, Alighiero Boetti, Enrico Castellani, Lucio Fontana, Jannis Kounellis, Marino Marini, Michelangelo Pistoletto, Mimmo Rotella.
L’attrazione principale di questa edizione è stata però sicuramente l’opera di Maurizio Cattelan, “Comedian” esposta dalla Gallerie Perrotin. Una banana attaccata alla parete con del nastro adesivo e destinata probabilmente a diventare la seconda più famosa dell’arte, dopo quella di Andy Warhol sulla copertina dei Velvet Undergrounde, e già venduta per 120 mila dollari.

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A Torino, a Palazzo Cavour fino all’11 gennaio 2015 , è allestita la mostra “Shit And Die”. Con questa mostra il curatore Cattelan riesce effettivamente a prendere il sopravvento sull’artista Cattelan. E questa affermazione serve per fare ammenda: chi scrive ha avuto difficoltà – a livello personale – a scindere le due cose (difficoltà espressa dallo stesso Maurizio Cattelan nell’ intervista che seguirà); ma non è difficile ammettere i propri torti di fronte all’evidenza. Ripensata, e quindi inevitabilmente rivisitata, la mostra rende certamente piena giustizia agli artisti esposti, e di conseguenza ai curatori tutti, ovvero Cattelan e le giovani Myriam Ben Salah e Marta Papini.

 

Maurizio Cattelan, Marta Papini, Myriam Ben Salah

 

Il titolo della mostra – preso in prestito da un famoso slogan al neon di Bruce Nauman – allude, nel contesto, al presupposto “vizietto” di Cavour, che si dice amasse pasteggiare con le proprie deiezioni. E il tema dell’ineluttabilità del tempo che scorre e di cui le uniche certezze della vita paiono essere quelle del titolo è effettivamente ricorrente nel corso dell’intera mostra.

Un approccio non già pessimista, ma malinconicamente realista: la stessa sensazione evocata, nella terza sala, dall’allestimento di una serie di mobili dei torinesissimi Gabetti & Isola e destinati agli utopistici villaggi Olivetti, dal design estremamente funzionalista.

Una mostra dedicata a Torino, e quindi torinocentrica, ma che attraverso la città racconta quindi altro; e racconta anche “altrove”, come fa Pascale Marthine Thayou – artista camerunense che vive in Belgio – che recupera al mercato di Porta Palazzo oggetti ricollegabili alla propria cultura di origine, creando con essi un ambiente realmente globale. O come, in senso inverso, fa Stelios Faitakis, artista greco che glorifica Torino ricreando significative scene della storia cittadina come fossero icone (neo)bizantine.

Notevoli sono i “prestiti” alla mostra di importanti musei torinesi che alla morte (e alla vita!) sono in qualche modo dedicati: dalla forca dei condannati a impiccagione (e i vasi che i detenuti non ancora impiccati dipingevano mentre vi assistevano, certamente “shitting themselves”) del Museo Lombroso di Antropologia Criminale, allo scheletro di Carlo Giacomini, già direttore del Museo di Anatomia Umana (a cui donò il proprio corpo), che qui a Palazzo Cavour vigila nella sala dei ritratti dedicati ai torinesi illustri.

Il percorso della mostra si compie nelle due sale finali: dapprima lo studio del Conte di Cavour, incellofanato, che voci di corridoio ci dicono ricordi in effetti le precauzioni adottate durante lo svolgimento di certe pratiche (sebbene noi si voglia leggere diversamente l’installazione…), completo di foto del sommo Tolouse-Lautrec intento a fare la cacca: a ricordarci che la fanno proprio tutti. Ed infine, un’automobile che, con lo scorrere del tempo (e i metronomi a rendere questo scorrere sensibile), si accartoccia su sé stessa. E, devo dire, rende il senso dell’ineluttabilità palpabile e angosciante.

 

Ammetto di avere difficoltà, nel guardare una mostra curata da un artista influente e di personalità quale lei è, a non vedere la mostra stessa come un’opera a sua volta. Cosa posso fare per liberarmi da questo preconcetto?
La mostra è frutto di un lavoro di squadra con Myriam e Marta, l’abbiamo ideata e costruita insieme, a sei mani e tre teste. Se non bastasse questo, a Palazzo Cavour ci sono opere di oltre sessanta artisti, molti più bravi di me. Alla fine funziona un po’ come un tumblr: noi ci siamo limitati a scegliere le opere e a metterle in relazione nello spazio, dando vita a nuove associazioni visive.

 

 

Guardando ai tanti aspetti di Torino, che qui sono ben rappresentati, dubito che quello a cui lei si senta più vicino sia quello operaio – un mestiere che ha fatto, ma sappiamo che “Lavorare è un Brutto Mestiere”. Quale ritiene sia l’aspetto della città a lei più prossimo, e cosa pensa di Torino in particolare soprattutto dopo aver lavorato a questa mostra?
A volte la cosa migliore che ti possa accadere è un disastro, è questo il genere di potenziale che mi sembra di intravedere per Torino. È orfana prima del regno e poi dell’industria, ma può produrre ancora molto in termini di avanguardie culturali. L’energia produttiva del passato può essere trasformata, e mi sembra di vedere in certe manifestazioni, come Artissima o il Club to Club, questa volontà di reinventarsi. È una scommessa: ha così tanto da perdere che può vincere.

 

 

Shit and die. Il titolo della mostra implica una vita in cui valga ancora la pena sperare? (dalla famosa frase “chi visse sperando morì cagando”)
La speranza è un concetto che non mi appartiene, credo piuttosto che sia la volontà l’elemento indispensabile. Certo, tutti moriremo, ma nel frattempo ognuno dovrebbe cercare di far sì che il proprio tempo sia impiegato al meglio. Negli anni mi sono convinto che impegnarsi a raggiungere i propri obiettivi o a non raggiungerli richieda lo stesso sforzo.

 

 

 

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