Articoli

Signorina! il suo profumo mi ha agganciato come un pescegatto 100x120
22 Mag

Enrico Robusti: cibo, eros e ironia

Difficile trovare un pittore italiano contemporaneo più Off di Enrico Robusti. Per elezione, per scelte compiute. E per il fatto di essere - più di tanti altri, più di artisti che hanno meno della metà dei suoi anni - veramente unico nel suo genere. Nella sua pittura tante sono le citazioni e i rimandi, da Chagall a Klimt sotto lo sguardo costante di un Grosz o di un Bosch; per tacere della sua iniziale ricerca pittorica compiuta con particolare riferimento alla scuola olandese seicentesca di Rubens e Van Dyck. Ma lui è decisamente e solo Enrico Robusti.

Nel 2004, dopo aver passato anni da pittore ritrattista con una laurea di Giurisprudenza in tasca, Robusti inizia un nuovo tipo di ricerca espressiva, che si compie e giunge a maturità nel 2011: il focus si sposta dal ritratto al simbolo, alla vertigine prospettica già presente nelle sue opere, in chiave espressionista e sempre più visionaria. Surrealtà e realismo sociale (e domestico) a braccetto.

Al centro della simbologia di Robusti c'è il cibo. O meglio, il divorare: dove non troviamo alimenti troviamo una bocca che divora un'altra bocca in un bacio estremamente carnale, abbuffate di erotismo, di sesso, di amore, di denaro. E questi simboli vengono posti al servizio dei temi trattati nelle sue opere, che si dedicano all'introspezione verso il sé come alla verifica con il sociale, al privato familiare come all'aspetto pubblico e anche politico, ma anche alle grandi domande di sempre che chiunque - ma in particolare l'artista - si pone.

L'aspetto visionario, reso dal pittore tramite le sue allegorie, i suoi personaggi, i suoi elementi e le sue prospettive è fondamentale per definire ed espandere maggiormente il suo messaggio. Che non vuol essere una risposta a nulla: l'artista non ha un compito. Ci dice Robusti: “L'artista non deve cercare risposte al senso della realtà: al contrario, deve rendere ambigua una cosa che sembra semplice, e viceversa. Deve affascinare chi guarda, non dare spiegazioni oggettive che peraltro non piacciono a nessuno. L'arte deve fermarsi al senso dello stupore e della meraviglia; come diceva Giovan Battista Marino “è del poeta il fin, la maraviglia e chi non sa stupir vada alla striglia". D'altronde nessuno è in grado di spiegare niente. Probabilmente l'unica spiegazione della nostra vita è il dubbio, non la certezza”

La citazione del Marino, con cui Robusti si identifica con un poeta piuttosto che con uno scrittore, ben si adatta all'approccio creativo con cui l'artista opera: si tratta infatti di un approccio letterario e non pittorico. Un quadro di Enrico Robusti non inizia sulla tela, ma da un titolo. Per il pittore ha molta importanza la Parola, e quali implicazioni e congiunzioni possa generare, quali metafore e allitterazioni possa evocare. Dipingere è un momento successivo: la ricerca pittorica non lo riguarda più.

A causa della crisi del nostro Paese, che comporta particolari difficoltà per un artista, Robusti ha dovuto scegliere, a malincuore, di vivere fisicamente in Italia - a Parma, la sua città, dove altrove?, al centro della terra dei piaceri sensuali legati in particolar modo al cibo - ma artisticamente e virtualmente altrove. Ovvero a Londra.
Ed è a Londra, presso la galleria Ransom Art, che dal 22 maggio al 23 giugno si terrà la sua prossima personale “Vice - Food, Sex & Irony in Italy”. Ovvero, le cose per cui vale la pena vivere. 25 tele di media dimensione ed una grande: ma non solo. Il giorno prima, il 22 maggio, ci sarà il private show in cui interverrà lo chef Giorgio Locatelli, che selezionerà vini e cibo da offrire ai presenti a suggello del significato liturgico del cibo che è implicito nelle opere di Robusti. Un aspetto liturgico che cela ben altre valenze, un atto del mangiare che non è mai fine a sé stesso.

I riti oscuri di Saturno Buttò
24 Giu

I riti oscuri di Saturno Buttò

A Napoli, ai Decumani, esiste dallo scorso anno una “galleria” d'arte probabilmente unica. Si tratta della “CoRE Gallery”, e si trova accanto alla Basilica di San Paolo Maggiore in una sala sotterranea del Cinquecento, dove in epoca romana c’era il tempio dedicato a Castore e Polluce.

”Core”, al di là del suo significato in inglese, è in questo caso un acronimo che sta per “COntemporary Room Exhibit”; ma, considerando il fatto che i Decumani sono il vero e proprio cuore della Napoli antica, non è difficile dare al termine una diversa lettura, in lingua napoletana. Così come non può essere un caso che questa galleria sotterranea (”underground”) ospiti - fatto più unico che raro e che la rende una sorta di ibrido tra la galleria ed un museo permanente - unicamente opere di un singolo pittore, che possiamo senz'altro definire “underground” per le scelte estetiche, tematiche e di percorso che da sempre compie.

Questa serie di apparenti giochi di parole - certamente frutto di una buona stella più che di un divertissement umano - si completano nel nome del pittore in questione: Saturno Buttò.

E non certo in quanto stretto parente dei due dioscuri, ma per quello che il nome del dio evoca: l'abbattimento dei moralismi che era tipico dei Saturnalia innanzitutto. Una antica divinità europea infera (… “underground”, ancora), Saturno.

CoRE Gallery proporrà, a metà luglio 2014, un “re-vernissage” del proprio spazio: naturalmente, ancora con opere del nostro, rinnovate per l'occasione.

Buttò nasce a Portogruaro nel 1957, frequenta dapprima il liceo artistico ed in seguito l'accademia di Belle Arti. Sviluppa in quei contesti le caratteristiche che sin da subito saranno peculiari e ricorrenti nella sua opera: una tecnica eccellente posta al servizio dell'Idea, che è ciò a cui realmente l'artista pone attenzione.
Un'idea portata avanti, da oltre trent'anni, con estrema coerenza dal punto di vista dello stile, delle tematiche e soprattutto dell'iconografia.

Ciò che Buttò raffigura è la sacralità della figura umana. Le sue ragazze sono sante, oppure dee pagane; ma se chiari sono i rimandi all'iconografia religiosa dei maestri del Seicento, come anche alle icone degli agiografi bizantini, forte è il contrasto evocato tra questa scelta estetica e gli elementi che completano - e di fatto compiono - le sue opere.
Vengono raccontati ed evocati la sessualità, il dolore, la morte, come elementi caratteristici della decadenza umana - fisica o interiore che sia - con cui ci si deve forzatamente confrontare.

Una decadenza che è strettamente connessa alla spiritualità; dove questa può rappresentare l'ancora di salvezza a cui l'essere umano si aggrappa nel tentativo di sfuggire a tale ineluttabilità, oppure (soprattutto nella sua coniugazione cristiano-cattolica) qualcosa che, al contempo mortificando le passioni e dando al corpo umano una valenza quasi feticistica (non a caso il cristianesimo contempla una vita eterna in cui vivremo nuovamente nei nostri corpi), è spesso generatore di tabù, morbosità e lacerazioni interiori.

Le opere di Buttò, in barba allo stile - frutto in realtà di una costante e fondamentale citazione voluta, oltre che della eccezionale tecnica - sono fortemente contemporanee e tutt'altro che passatiste, pienamente calate nella nostra cultura. Che non è solo di matrice cattolica, ma che attinge a piene mani anche al precristianesimo e al paganesimo. E ai riti apparentemente nuovi, ma in realtà così antichi: la perversione sessuale, la modificazione corporea, il tribalismo delle culture alternative (goth, punk...). Una “nuova religione” oscura.

“Eden”: l’infanzia di Israele
10 Lug

“Eden”: l’infanzia di Israele

A Tel Aviv, nella sede israeliana della Ermanno Tedeschi Gallery fino al 22 agosto, è in mostra “Eden” di Barbara Nahmad. Si tratta di immagini che, attraverso i pennelli dell'artista, raccontano dell'Israele degli anni cinquanta, quando - appunto - esso tornava a rappresentare, per tutti gli ebrei della diaspora, la vera e propria “Terra Promessa”. Quadri che raffigurano immagini (tratte da libri dell'epoca che circolavano nelle comunità ebraiche di tutto il mondo allo scopo di favorire l'Aliyà) che in realtà potrebbero essere scene di qualsiasi posto, e che appaiono quasi sospese nel tempo. La reazione del pubblico locale, di qualsiasi generazione fosse, è stata di sincera emozione. Molte le scene collettive di bambini, come a sottolineare lo stato di “infanzia” della nuova nazione: bambini quasi sempre vestiti nello stesso modo, coi loro grembiulini a fare come da piccola uniforme del piccolo, giovane stato.

Per rendere al meglio la sensazione necessaria per trasmettere l'idea di distacco dal tempo e di emozione immediata e senza rumori e ridondanze, la Nahmad ha abbandonato il suo stile abituale, per cui è nota da anni e che la rende immediatamente riconoscibile: niente più olio su squillanti sfondi a smalto, niente più icone pop. Tutto è ridotto all'essenziale. E l'artista, con questo, pare voler sottolineare come - in questo periodo di estrema crisi (in effetti, soprattutto di valori) dell'occidente - possa essere cosa saggia trascurarne i falsi miti, gli orpelli, e andare alla ricerca della semplicità e della voglia di crescere, nel nome di un sogno collettivo e sociale. Che l'artista ritrova, con estrema naturalezza - lei, al contempo pienamente ebrea ed europea - in questa storia.

Barbara Nahmad, classe 1967, nata a Milano da genitori ebreo-egiziani e cresciuta nel contesto di organizzazioni ebraiche, ha vissuto anche un anno in un Kibbutz israeliano, per poi tornare nel capoluogo lombardo e frequentare l'Accademia di Brera. Le sue opere del passato, caratterizzate ora dalla rappresentazione di nudi pornografici tratti dalle riviste di incontri - corpi senza un volto, decadenti nel fisico e nelle intenzioni, con chiari riferimenti estetici a Lucien Freud - , e poi dalla raffigurazione di warholiana memoria degli “dei” del secolo passato, piuttosto che dalla rivisitazione dei baci storici che sono diventati a loro volta icone, l'hanno fatta apprezzare da critica, pubblico e collezionisti.
Ma ora, arrivata a un punto in cui non ha più la necessità di “dover dimostrare” per forza qualcosa, Nahmad sceglie - o per meglio dire, vi perviene naturalmente - di tagliare formalmente (e quindi stilisticamente) e concettualmente col passato.
Appare quasi paradossale che lo faccia con una mostra che si rifà ad immagini degli anni cinquanta. Ma, come dicevamo prima, in questo caso si tratta di testimoniare un passato che appare atemporale, anonimo e sospeso, e di cui emerge solo il significato profondo: ritrarre la voglia di rinascere e di creare, di crescere, di valori etici positivi, di assenza del superfluo, di sacrificio e di sostanza.
E queste istanze sono talmente urgenti nei nostri tempi da rendere i quadri di “Eden” più attuali che mai.
Questa svolta dell'artista la mette senza dubbio in gioco anche per il fatto che tende a rivelarne fragilità e difficoltà che precedentemente erano celate dietro alla sicurezza del proprio operato. Ma, come lei stessa afferma, “la cosa meravigliosa è che questo ha prodotto una visione molto aperta e positiva anche da parte degli altri. Perché tutti abbiamo fragilità e difficoltà, le ho io come le ha il mio pubblico e le hanno i miei collezionisti... Con tutti mi sono quindi ritrovata in un confronto più diretto, con meno distacco, con più commozione.”

La mostra proseguirà anche in Italia, in autunno, a Roma e a Torino.

Tommaso Gorla, inverosimili paesaggi
06 Ott

Tommaso Gorla, inverosimili paesaggi

Fino al 19 dicembre 2014, alla Galleria Patricia Armocida di Milano, è in mostra “Paesaggio Incompleto” di Tommaso Gorla.
Si tratta di quindici tele e venti acrilici su carta appositamente creati per questo evento, in cui l'artista torna ad affrontare il tema del paesaggio – già trattato in precedenza – ma con un approccio nuovo. Ovvero, ponendo al centro delle opere il tema su cui già da tempo ha concentrato la propria ricerca: la relazione tra l'immagine e la memoria.

Gorla, classe 1981, nasce a Verona ma si sposta all'estero, nel 2010, per un dottorato sull'antropologia dell'immagine; dapprima illustratore, si dedica sempre più alla pittura – pur restando il “disegno” qualcosa di centrale nella propria opera – e anche nell'arte concentra le tematiche approfondite a livello teorico.

I soggetti di Gorla sono vari. Si tratta sempre di lavori in serie, in cui è onnipresente l'incompletezza, voluta e niente affatto casuale. I suoi dipinti risultano sospesi; o, qualora siano completi (come nel caso dei paesaggi), ci si ritrova sempre qualche elemento difficilmente riconoscibile, tramite cui l'osservatore viene trasportato al di là del quadro, al di là dello stesso paesaggio. L'immagine in questione è in effetti completa per il pittore; più precisamente, raffigura con esattezza il ricordo che lo stesso ha dell'immagine, del soggetto raffigurato. Ecco perché Gorla, seppur figurativo, generalmente non dipinge copiando da fotografie; e se lo fa, mantiene di esse gli elementi salienti e distintivi, per poi distoglierne lo sguardo e lavorare sulla memoria.

Tommaso Gorla alla Galleria Armocida

 

“Paesaggio Incompleto” è stato, afferma l'artista, un esperimento. I lavori precedenti mettevano maggiormente in evidenza il suo concetto: nei bestiari, ad esempio, osserviamo che spesso agli animali raffigurati mancano alcune parti fondamentali. L'approccio di Gorla, nel togliere – poniamo - il becco ad un uccellino, comporta un paradosso che consiste nel fatto che eliminando l'elemento che più caratterizza qualcosa, l'assenza di tale elemento lo rende ancor più visibile, trasformandolo nel vero e proprio centro del disegno, stimolando la memoria che ognuno di noi ha dell'uccellino stesso.

Il paesaggio, invece, è un tema insidioso e complesso, affrontato e riaffrontato da innumerevoli artisti con innumerevoli approcci,  ed è senz'altro più difficile “eliminarne” un elemento facendo sì che questo fatto salti all'occhio. Gorla affronta quindi il paesaggio come un pretesto per capire come risulti in pittura il ricordo di un soggetto ben noto e condiviso, che ognuno di noi ha in mente. E l'obiettivo è renderne la sensazione, più che rappresentarlo. In questo caso, quindi, l'incompletezza non viene creata eliminando degli elementi, bensì aggiungendone alcuni, che però siano difficilmente indentificabili. Come, per esempio, delle linee verticali, il cui compito è quello di evocare la costante mutevolezza di un paesaggio, e l'ancor più mutevole ricordo che noi abbiamo di esso.

È un po' lo stesso atteggiamento – come peraltro l'artista stesso osserva – riscontrabile, in fotografia, nell'opera di Luigi Ghirri, che nelle sue foto (ultradefinite, ma effettivamente indefinite) appone elementi fuori contesto che entrano a far parte del paesaggio: ma né il paesaggio, né gli elementi sono soggetti dello scatto, invitando piuttosto ad andare oltre allo stesso.

Citando Chris Marker (regista geniale quanto misterioso, che in particolare con le sue opere più note - La jetée e Sans Soleil – affronta il tema della memoria) e Gerhard Richter (le cui Photographies Repeintes ricordano l'approccio nel “modificare” i paesaggi con elementi indefiniti) come fonti di sicura ispirazione, Gorla si appresta ad affrontare una nuova ricerca. E insistendo sugli elementi a lui più cari – ovvero il disegno e il tema della memoria – sta lavorando a opere di animazione.

L’impulso e il controllo, Thula
17 Feb

L’impulso e il controllo, Thula

“Vietato NON toccare le tele”. Questo l'insolito monito sottointeso da Thula, pittrice romana di nascita e milanese di adozione. Ed effettivamente i suoi quadri, plastici e materici, fatti di volume almeno quanto di cromatismi, reclamano a tutta forza di essere accarezzati, per seguirne forme e spigolosità.
Rischi non ce ne sono: afferma la pittrice che le sue opere sono perfino lavabili, con acqua e sapone.

Le tele di Thula sono il risultato di un'approfondita ricerca sui materiali e i mezzi. Il lavoro viene generalmente svolto tramite spatola, a modellare resine bicomponenti – che solitamente hanno tutt'altra destinazione di utilizzo, ovvero la creazione di oggetti – in seguito colorate e poi finite con una laccatura a base di flatting da barca. Materiali inusuali, questi (ed altri ancora) usati dall'artista, a realizzare quadri aniconici in cui la ricerca dell'estetismo e della forza espressionistica è al centro dell'atto creativo.

I quadri di Thula sono opere spesso faticose, in particolare quelli grandi. Faticosi fisicamente, a causa dei vapori tossici delle resine da respirare, delle posizioni forzate per stendere la materia e per farlo presto, perché ci sono solo due ore di tempo prima che inizi ad essere non più malleabile. E questa fatica fisica, questa fretta obbligata che porta anche a una notevole fatica mentale, costringono la pittrice ad un gesto creativo che dev'essere al contempo di assoluto impulso e di massimo controllo possibile. La chiave per riuscirci è l'equilibrio: occorre saper liberare totalmente le proprie emozioni ed i propri sentimenti, e allo stesso tempo saperne dominare la forza drammatica affinché non prendano il sopravvento. Un equilibrio che è evidente nelle opere, che sanno apparire simmetriche anche quando non lo sono, che risultano liquide anche quando sono in realtà cristallizzate. Come nella natura stessa del vetro, solido che si comporta in un certo senso come un liquido.

La mutevolezza insita nei quadri di Thula appare evidente muovendosi attorno ad essi, o cambiando le luci che li colpiscono e le loro inclinazioni: nuove forme paiono di volta in volta palesarsi, anche nelle più recenti opere totalmente bianche, che danno pertanto maggior spazio ed importanza alle forme volumiche. E in questo senso, molto affascinanti sono anche i più recenti lavori dell'artista, che sulle sue tele bianche proietta immagini di terre e di elementi della natura, che paiono animarsi di movimenti nuovi, astraendo la realtà dell'immagine stessa. Quasi fossero la leggendaria terra di Thule, mutevole e cangiante, di fuoco come di ghiaccio, presente e contemporaneamente assente: come è Thula stessa, nonostante il suo nome nasca da tutt'altra storia, più intima e familiare. Ma, si sa, nomen omen, e quindi tutto torna. E tutto scorre, ovviamente.

 

Padiglione Italia, un balzo indietro per farne uno in avanti
10 Mag

Padiglione Italia, un balzo indietro per farne uno in avanti

La più grande consolazione dell'essere italiani è quella di poter ricorrere alla nostra memoria. Il presente non è dei migliori, e tutto sommato nemmeno il passato prossimo; solitamente serve ricorrere al passato remoto, quando non ai trapassati, per ricordarci dell'orgoglio dell'essere italiani, almeno dal punto di vista culturale ed artistico.

In questo senso, “Codice Italia”, la mostra curata da Vincenzo Trione allestita presso il Padiglione Italia della Biennale di Venezia 2015, è un esempio ben riuscito di quella che la funzione di questa Memoria dovrebbe essere. Ovvero, l'essere la solida base da cui far partire lo slancio verso il futuro.

“In questo vivere nel tempo siamo come l'atleta, che per fare un balzo avanti deve sempre fare un passo indietro, se non fa un passo indietro non riesce a balzare in avanti”: in questa frase - dal sapore vagamente maoista, in questo senso allineata con le tinte rosse che caratterizzano la Biennale di quest'anno - che campeggia sui muri del Padiglione Italia è espresso proprio questo concetto. Ed il lavoro compiuto da Trione e dagli artisti presenti, ognuno con un'opera site specific, opera in maniera efficace in questa direzione.

La mostra si articola in tre capitoli: l'operazione compiuta da artisti italiani di varie formazioni ma accomunati dalla tensione verso la sperimentazione combinata con il ricorso alla memoria storico-artistica del nostro Paese, che sono stati invitati a realizzare opere simboliche e poetiche accompagnate da Archivi della Memoria ispirati all'Atlante di Warburg; l'omaggio di tre artisti stranieri alla nostra Arte; una videoinstallazione che ospita una riflessione di Umberto Eco relativa alla “reinvenzione della memoria”, tema centrale di “Codice Italia”.

 

Mimmo Palladino, Senza titolo, 2015, carbone su muro e fusione in alluminio, schermo a cristalli liquidi e vetro resina

 

Abbiamo rivolto tre domande a Vincenzo Trione curatore del Padiglione Italia.

Come si colloca il tema della Memoria da voi scelto per il Padiglione nell'ambito dell'indirizzo tracciato da Okwui Enwezor per la Biennale?
Con una forma di dialogo, ma anche di indipendenza: Enwezor ha scelto un percorso in gran parte legato al senso della frammentazione della profezia, muovendo da un riferimento a Benjamin. Nel mio caso, cerco di fare un lavoro sul tema della riattivazione della memoria. Una memoria intesa quindi non in senso anacronistico e nostalgico, ma come fondamento per dialogare continuamente con il presente e prefigurare scenari possibili. Quello che mi ha guidato è la scelta di artisti che pensano l'immagine e l'opera come spazi all'interno dei quali i riferimenti alla storia dell'arte sono in costante dialogo con il bisogno di innovare e di sperimentare sui linguaggi.

Il ricorso alla Memoria, per come paiono intenderlo gli artisti presenti al Padiglione Italia, sembra quasi più di stampo dissacratorio che non qualcosa che assomigli a un omaggio. È questo l'atteggiamento necessario per ripartire dai classici nella contemporaneità?
Si. L'unico modo per misurarsi con i classici, con i padri dell'arte sta probabilmente nell'avviare un dialogo aperto ma sempre inquieto e mai omaggiante, sfidando i riferimenti alla storia dell'arte e alla classicità con un gusto profondo per la profanazione. Il bisogno che accomuna tutti gli artisti è questo: non di innalzare la storia dell'arte su un piedistallo, ma di acquisirla e collocarla dentro altri circuiti di senso, dentro altri spazi. E, soprattutto, con l'atteggiamento di chi della storia dell'arte fa ciò che vuole, prendendosi quindi il gusto di dissacrarla.

 

Vanessa Beecroft – Le Membre Fantôme – 2015

 

Come ritiene l'approccio degli artisti presenti al Padiglione Italia verso i nuovi media come parte del mezzo espressivo?
In molti autori il rapporto con i media è fortissimo. Si parte dall'utilizzo del supporto fotografico nel caso di Antonio Biasiucci e di Paolo Gioli; Di Gioli, inoltre, presento anche due film che sono un omaggio alla storia delle avanguardie del primo novecento. La matrice fotografica è anche all'origine, per esempio, del lavoro di Giuseppe Caccavale. La videoinstallazione è un tema che si ritrova in Aldo Tambellini e in Andrea Aquilanti. È presente in mostra un film in tre parti come quello di Davide Ferrario su Umberto Eco. Il lavoro di Peter Greenaway è un omaggio alla storia dell'arte, ma risituata attraverso una videoinstallazione che è a metà strada tra il videoclip e l'opera d'arte totale. E Kentridge pensa i suoi disegni come degli sketch per un possibile film.
Ritengo quindi che l'approccio sia molto attivo. Peraltro, quello del rapporto con i nuovi media è un tema che mi sta molto a cuore: insegno arte e nuovi media, è la mia disciplina.

 

Marzia Migliora, Stilleven/Natura in posa, 2015, installazione materiali vari

 

 

Silvia Calcagno, ceramiche e new media
21 Mag

Silvia Calcagno, ceramiche e new media

Dal 21 maggio al 18 settembre, alle Officine Saffi di Milano, Silvia Celeste Calcagno esporrà la propria personale Interno 8, La fleur coupée.
La mostra, curata da Angela Madesani, chiude un cerchio nella carriera - e forse anche nella vita - di Silvia, per aprirne uno nuovo. L' “interno 8” è effettivamente la casa “di transizione” dell'artista, in cui vive in seguito a un cambiamento importante. E il cerchio che si chiude attorno alla sua vita privata è stato coronato con l'assegnazione - la scorsa settimana - del prestigioso Premio Faenza, importantissimo concorso internazionale della ceramica d'arte contemporanea.

L'opera della Calcagno è notevole proprio per il fatto di riuscire a coniugare un'arte “antica” con il ricorso ai nuovi media, di farlo in maniera tutt'altro che forzata, e naturalmente di porre tutto ciò al servizio del proprio concetto con una forza importante. La ceramica, probabilmente per “colpa” dei ceramisti stessi, è un mezzo espressivo che in arte tende ad essere sottovalutato, per via del suo utilizzo abitualmente legato all'artigianato; inoltre, la fotoceramica è una tecnica generalmente associata a settori che tendono ad allontanarla ulteriormente dall'idea di “arte”. Silvia Calcagno innanzitutto lavora con il gres, di cui ha studiato (e insegnato) a fondo le caratteristiche e le potenzialità; ha inoltre sviluppato una tecnica particolare, da lei battezzata “fine painting gres” che permette alla fotografia di penetrare a fondo la materia, di divenire un tutt'uno con essa. Ma, ancora, non è la padronanza tecnica la parte centrale del suo lavoro, bensì quella concettuale. L'utilizzo del gres come mero supporto alla forza delle sue idee, assieme al ricorso alla fotografia e ai video, fanno della Calcagno un'artista che porta un decisivo contributo ad uno sdoganamento dell'uso della ceramica nell'arte nobile contemporanea.

I temi centrali dell'opera dell'artista sono quelli dell'identità e della reiterazione. Anzi, tramite la reiterazione c'è una costante ricerca della propria identità. Ecco perché Silvia ritrae sé stessa, innumerevoli e impercettibili variazioni del proprio corpo. E se prima la ricerca dell'identità era fatta di profilo, quasi di nascosto, ora, con “Rose” (una delle opere esposte alla mostra), l'artista guarda in faccia - attraverso oltre tremila scatti, eseguiti tutti in tre ore - l'osservatore; ponendosi quindi in confronto con lui, mostrando ora la propria malinconia, ora l'ironia, oppure il proprio senso di tristezza, di sconfitta.
Nel lavoro della Calcagno non traspare però alcuna autoreferenzialità. L'utilizzo che lei fa del proprio corpo come soggetto dell' opera è necessario e inevitabile ed in ogni caso, nonostante l'ossessiva ripetizione e moltiplicazione di sé, risulta discreto. Apparentemente moderato, eppure forte. È forse questo approccio a distaccarla decisamente dalla body art, mentre il ricorso al materiale audiovisivo sottolinea ulteriormente la multimedialità della sua espressione, che - lo ribadiamo - riesce a coniugare in maniera estremamente convincente i nuovi mezzi espressivi con quello che è uno dei media più antichi che l'arte conosca.

 Olivier François- Quale Assenza - Tecnica mista su carta Hahnemühle
10 Giu

Quegli “Eclettici” dal multiforme ingegno

"La Fabbrica Del Sorriso", iniziativa della onlus Mediafriends destinata alla raccolta fondi per la associazione, propone quest'anno anche una mostra. Si tratta di "Gli Eclettici - Fame di Vita".
Da venerdì 12 giugno all' 11 ottobre 2015 saranno esposte, in uno spazio espositivo creato ad hoc in Largo Augusto 8 a Milano, oltre 300 opere d'arte create da personaggi di talento e successo in svariati campi - artistici e non - che però non sono professionisti di arte visive. Nulla a che vedere con la cosiddetta "arte eclettica", insomma: i nostri eclettici sono eclettici negli indirizzi della loro creatività, non nella scelta degli "stili" per metterla in pratica in un'unica forma d'arte.

Curata da Davide Rampello, la mostra si apre con una sezione speciale dedicata - a quasi un anno dalla scomparsa - ad uno dei più grandi eclettici dei tempi recenti: Giorgio Faletti, di cui sono esposti abiti e foto di scena, i suoi romanzi, memorabilia varie che evocano la versatilità del grande scrittore... o del grande comico.
Le sezioni principali sono due: la prima presenta artisti eclettici storici come il bancario e pittore Giuseppe Guerreschi, o l'intellettuale, dirigente, grafico e pittore Attilio Rossi; la seconda è dedicata ai contemporanei, tra cui volti noti del mondo dello spettacolo come Nancy Brilli, Dario Ballantini o Davide Mengacci, lo scrittore Nicolai Lilin, imprenditori e manager come Olivier François, Giuseppe Zanotti, Larry Woodmann e Giores.

Tutti gli artisti hanno donato una loro opera, il cui ricavato sarà devoluto interamente a Mediafriends.
La chiave di lettura per evitare di cadere in facili e banali pregiudizi che possano portare a pensare che questi artisti "debbano" essere considerati dei dilettanti sta nella seconda parte del titolo della mostra. "Fame di Vita": è questo il punto centrale.
Premettendo che il termine "dilettante", a fronte di un'accezione generalmente negativa, ha invece un etimo del tutto positivo (si tratta di persone che fanno qualcosa con lo scopo di provare diletto, ovvero piacere, passione, gioia ed entusiasmo), il fatto su cui riflettere è che la vita quotidiana stessa tende a frammentare le attività di ognuno di noi in molteplici manifestazioni. Fa parte della natura umana, o per meglio dire del suo aspetto assolutamente elevato. È del tutto frequente e normale che ci siano impiegati che oltre al loro lavoro sono bravissimi a giocare a tennis, ma anche a cucinare, raccontano barzellette in modo fantastico, cantano o ballano non meno bene di star affermate. E tutto questo pare naturale, e contribuisce a rendere una persona "interessante": la persona versatile e ricca di interessi che l'appassionano sinceramente è senza dubbio quella con cui è più piacevole passare del tempo. La sua tensione verso l'arricchimento personale, la creatività e il molteplice talento, oltre a far bene alla persona stessa è un bene anche per chi le sta attorno, e - allargando il discorso - contribuisce a migliorare l'umanità.

Ma se i dischi registrati da "non cantanti" o "non musicisti", come i libri scritti da "non scrittori", sono in qualche modo sdoganati - forse per il fatto che si tratta di arti spesso erroneamente considerate minori e più prossime all'entertainment - per coloro che compiono la stessa operazione con le arti visive critici e pubblico tendono spesso a storcere il naso. La vicenda della scultrice Gina Lollobrigida, risalente già a parecchi anni fa, pare ancora irrisolta; e perfino un artista del livello di Pasolini, acclamato come regista e scrittore, lascia perplessi i critici di fronte ai suoi bozzetti, nonostante siano lavori davvero interessanti. Un Buzzati, ad esempio, si è invece salvato da questo atteggiamento critico. Lui, che forse è stato l'eclettico tra gli eclettici italiani del ventesimo secolo.
Eppure, come sottolinea lo stesso Rampello, ciò che fa l'"eclettico" altro non è che cercare di "cogliere fuori" - ancora, come da etimo - , fuori dal proprio ambito quindi, andando al di là delle proprie consuetudini: il gesto dell'eclettico è quello di chi ha desiderio di conoscenza di sé, e di espressione di sé nella maniera più completa e poliedrica possibile tra quelle a lui familiari. Tutt'altro che un hobbista, l'eclettico.
L'arte stessa non scaturisce da altro che dal tentativo dell’uomo di avere una visione nuova della vita, un modo diverso di esprimersi.

Il grande valore di questa mostra, quindi, è il poter raccontare del senso che l’uomo prima di tutto è uomo; per questo motivo, molte volte il lavoro che fa è assolutamente insufficiente a esprimerlo completamente e rappresentarlo compiutamente. A volte si sente l’esigenza di questo completamento, ed è una necessità irrefrenabile: è la stessa chiamata "fuoco sacro" dell'artista. E che magari porta un ingegnere a diventare uno dei più grandi scrittori del ‘900, come capitò a Carlo Emilio Gadda, o un chirurgo o un avvocato a diventare due dei più grandi musicisti italiani del dopoguerra, come Jannacci o Paolo Conte. Per tacere del già citato Faletti, di cui negli ultimi anni si tendeva a dimenticare che grande comico fosse stato, e anche che ottimo musicista: Faletti, ormai per tutti il grande scrittore.
Ma anche qualora il percorso degli "Eclettici" in mostra per "La Fabbrica Del Sorriso" non dovesse portare ad uno stesso epilogo, ciò non toglierebbe la dignità artistica alle opere portate a questa mostra. Perché non è una collezione di "omaggi" di amici di Faletti e di Mediafriends: è davvero una collettiva di livello pregevole di opere create da persone che non potevano farne a meno. Che non possono lasciare che la loro vitalità resti confinata negli schemi che le rispettive professioni imporrebbero loro.

Svastiche, bombe e dittatori. Il mondo? Una contraddizione
16 Nov

Svastiche, bombe e dittatori. Il mondo? Una contraddizione

Dal 15 novembre al M.A.C. di Milano c'è “The Best is yet to come” di Max Papeschi.

La mostra, curata da Silvia Basta e dal fondatore dei Devo Gerald Casale e presentata da Fondazione Maimeri, è un'antologica della folgorante carriera di Papeschi.

L'artista milanese, dopo otto anni di scandali, polemiche, e surrealtà varie - a partire dal gigantesco Topolino con svastica sulla facciata di un palazzo di Poznan, fino alla recente investitura ad ambasciatore della propaganda socio-culturale della Corea del Nord, si sofferma con l'abituale ironico egocentrismo a contemplare la propria parabola. E, assicura, il meglio deve ancora venire.

Il percorso espositivo racconta le tappe più importanti della storia di Papeschi, che in pochi anni ha saputo essere talmente non-artista da diventare uno degli artisti italiani di oggi più noti all'estero.
Dall'ingresso, interamente tappezzato con la sua rassegna stampa, alle prime opere che lo hanno consacrato: il nazitopolino sexy, che è stato l'inizio di tutto, il bambino di "Wall Street" del 2009 e i dirigibili incendiari della Coca-Cola.

Le sue opere sempre spiazzanti e irriverenti, utilizzano i simboli della cultura contemporanea rimescolandoli e mettendone così a nudo le forti contraddizioni. Un costante lavoro sui contrasti, come emerge anche dai lavori più classici: dalla Società dello Spettacolo a From Hiroshima with Love.

E il contrasto è davvero forte soprattutto quando Papeschi fa stridere l'innocenza, la favola, con la cruda realtà: come nei personaggi più amati da grandi e piccini, riveduti e scorretti dall'artista.

Un grande vidiwall proietta, in loop, il recente risultato della collaborazione tra Papeschi e Casale: è "It's all Devo" ultimo brano del musicista americano, con Maurizio Temporin alla regia e il supporto musicale dei Phunk Investigation.

Nella parte finale del percorso espositivo alcune opere del più recente progetto dell'artista Milanese, "Welcome to North Korea", chiudono il percorso e ci accompagnano verso l'uscita, dove una copertina per la rivista "Arte.it", rielaborazione di una storica pagina del Sun su Sid Vicious, vede Papeschi protagonista. Non certo morto, al contrario del bassista dei Pistols, ma più vivo che mai: il meglio, infatti, deve ancora venire.

The Best is yet to come resterà al M.A.C. fino al 26 novembre 2016

Una Nuvola di tecnologia scende dal cielo
30 Ott

Una Nuvola di tecnologia scende dal cielo

Inaugurato il nuovo Roma Convention Center all'Eur, da oggi “tra Roma e il cielo” fluttuerà la Nuvola di Fuksas. Il progetto, voluto da EUR SpA, tende a una nuova ricandidatura del quartiere romano a simbolo del Nuovo; e, settanta anni dopo il razionalismo del ventennio, lo fa utilizzando non solo materiali e tecnologie estremamente avanzate, ma anche sfuggendo del tutto alla razionalità della geometria euclidea. La Nuvola, che è il fulcro del nuovo centro congressi, è infatti un oggetto del tutto privo di una forma definita, che trae ispirazione dai viaggi transoceanici di Fuksas negli anni novanta. Il rapporto tra il “sopra” e il “sotto” delle nuvole, osservate dall’aereo, è stato rivelatore per l’archistar, che pone infatti l’accento - ancor più che sulla sua nuvola - sugli spazi tra essa e la gigantesca teca di vetro che la racchiude. Un nuovo punto di riferimento quindi, che entrerà nell'immaginario del quartiere: come dice l’architetto, “dall'interno si vedrà l'esterno, e dall'esterno la notte si vedrà questa grande lampada e darà un segno.” La geometria molto semplice dell'Eur non cambia: la complessità è stata data all'interno. Tre sono gli elementi che, intersecandosi, costituiscono il nuovo complesso, costruito su una superficie di quasi sessantamila metri quadri: La Teca, ovvero il contenitore; la Nuvola, in nervature d’acciaio rivestite da un telo trasparente, che ospita l’auditorium per 1800 posti; e la Lama, ovvero l’albergo, alto 55 metri, con 439 stanze e pensato come struttura autonoma. E la progettazione del complesso si contraddistingue per un approccio eco-compatibile, volto a ridurre il consumo energetico: dal sistema di climatizzazione che consente un consumo ottimale di energia in funzione dell’affollamento dei locali, alla copertura della teca con elementi fotovoltaici che consentono una produzione naturale di energia elettrica. Perché il futuro dell’architettura non può prescindere da quello dell’ambiente che la ospita.