Articoli

Mentre sta per aprire una grande mostra dedicata a Bellini, Timothy Potts, il direttore del Getty Museum, parla dei rapporti tra gli Stati Uniti e l’arte italiana. “Voi avete un tesoro immenso, ma per gestirlo al meglio non dovete avere paura dei finanziamenti privati”
 

Tra poco meno di un mese, al Getty Center di Los Angeles, aprirà la mostra "Giovanni Bellini: Paesaggi di Fede nella Venezia del Rinascimento". Si tratta dell'ennesimo riconoscimento, da parte dell'importante istituzione americana, nei confronti dell'arte italiana.

I rapporti tra il Getty e il nostro Paese sono sempre più votati a una intensa collaborazione: come testimoniato dalla recente restituzione dello "Zeus in Trono", ritornato a Napoli, dal frequente scambio di prestiti, dai lavori di conservazione di opere italiane effettuati dagli istituti di ricerca del Getty e, non ultimo, dalla nomina di Davide Gasparotto a Senior Curator of Paintings del museo. Una nomina fortemente voluta dal direttore del Getty: Timothy Potts, storico dell'arte e archeologo australiano formatosi dapprima all'università di Sidney e, in seguito, divenuto ricercatore a Oxford, dove si occupava di arte del vicino Oriente e di archeologia. Ha poi diretto gli scavi di Pella, in Giordania, passando in seguito alla carriera di direttore di museo dapprima alla Galleria nazionale di Victoria, al Kimbell Art Museum di Fort Worth (Texas) e infine al Fitzwilliam Museum di Cambridge, in Inghilterra.

Abbiamo incontrato Potts a Los Angeles, nel suo studio, presso il Getty Center, una delle due sedi espositive dell'istituzione.

Timothy Potts: l’arte italiana è senza dubbio centrale al Getty Museum. Quanto conta l'italianità di Davide Gasparotto nella sua scelta di nominarlo Senior Curator of paintings?

“È stata senz'altro una componente della decisione. Ma la cosa più importante è il fatto che sia un accademico di prima scelta, che abbia organizzato importantissime mostre, che sia tra i massimi esperti di pittura e scultura italiana: si tratta insomma della qualità assoluta della persona come studioso, come curatore, come figura che può accendere l'interesse verso l'arte italiana, e questo è importante per l'Europa e per l'arte occidentale in genere”.

Può raccontarci della restituzione dell’opera “Zeus in Trono”?

“Si tratta di un'opera che acquisimmo nel 1992 come parte di una grande collezione. Qualche anno fa le autorità italiane vennero da noi con un pezzo della scultura, dicendo che avrebbe combaciato con lo Zeus. Avevano delle informazioni - non sappiamo da dove - che sostenevano che fosse parte dello stesso oggetto. Effettivamente l’unione delle parti risultò perfetta, per cui fu evidente che se quel nuovo frammento veniva dall'Italia, così doveva essere per il resto della scultura. Che quindi decidemmo di restituire, e che ritornò a Napoli”.

Questa nuova relazione del Getty con le istituzioni italiane porterà anche a un'intensificazione dei rapporti dal punto di vista dello scambio e dei prestiti di opere?
“Certamente. Abbiamo già in corso delle discussioni: stiamo preparando una mostra sulle relazioni tra l'antico Egitto e il mondo classico, e prenderemo in prestito alcuni oggetti da Napoli per l’occasione. Inoltre stiamo facendo dei lavori di conservazione su alcuni oggetti del museo archeologico di Napoli. Questo rapporto non è una cosa nuova, onestamente, ma certamente si intensificherà, soprattutto dopo la riapertura della Getty Villa - che stiamo riorganizzando in chiave cronologica e non tematica - dove porteremo nuove opere e ci concentreremo sulle antiche culture italiane”.

Il Getty è contraddistinto da una serie costosissima di attività, pur mantenendo una politica di ingressi gratuiti…

“Devo dire che si tratta di quello che credo renda unico il nostro museo: noi abbiamo potuto beneficiare dei fondi di Mr. Getty, che era un uomo molto ricco e che lasciò un patrimonio come sovvenzione per il museo, e non soltanto: c'è stata una crescita da allora, e sono arrivati un istituto di ricerca, uno di conservazione. Questo è alla base della generosità che il Getty può offrire, facendo interventi su oggetti appartenenti ad altri musei, come quelli di Napoli, Roma e altrove. È parte della nostra mission fare cose che possano supportare la comprensione della storia dell'arte in tutto il mondo: non solo in Italia, ma anche in Cina, in India e in altri posti. Siamo quindi in una posizione privilegiata, abbiamo le risorse per avere un impatto positivo sulla divulgazione dell'arte del mondo, ed è quello che amiamo fare”.

Che suggerimento darebbe a un museo italiano? E se lavorasse in Italia, dove le piacerebbe lavorare?

“Credo che Roma abbia tutto. Ha tutto dall'VIII secolo avanti Cristo, da quando venne fondata, fino ai nostri giorni: quindi, se dovessi scegliere un posto, sarebbe Roma. L'Italia ha un patrimonio artistico che non è secondo a nessuno al mondo, e non le manca quindi certamente nulla dal punto di vista dell’‘avere’: la sfida è quella di saper gestire questi incredibili siti culturali, e i milioni di turisti che vengono a visitarli; occorre dar loro un'esperienza ricca di significato, non abbandonarli a una semplice visione superficiale dei posti. Bisogna dargli un livello di comprensione che non hanno mai avuto prima, ed è una grande sfida: così tanta gente, così tanti siti, così tante cose da fare e da vedere, e la maggior parte della gente passa non più di una settimana a Roma. La chiave è in questo, io non credo di avere la risposta ma sarebbe quello su cui personalmente mi concentrerei”.

Pensa che negli Stati Uniti questo obiettivo sia stato raggiunto?

“Non esiste la perfezione, e non esiste un risultato finale da raggiungere, si può sempre migliorare. Certamente, sono due realtà imparagonabili: credo ad esempio che noi al Getty si faccia un buon lavoro, ma abbiamo soltanto due siti da gestire. Ritengo che recentemente, sotto il ministro Franceschini, l'Italia abbia fatto un'ottima cosa con la nomina dei nuovi direttori di museo: non perché siano stranieri - la cittadinanza in sé non c'entra - ma perché sono state portate in Italia nuove visioni riguardo alle sfide di cui parlavo. È un passo avanti positivo, che renderà più professionale la gestione di queste istituzioni. Non perché gli italiani non fossero professionali: lo erano, ma restavano portatori di un’unica tradizione, di un unico modo di pensare e procedere. Credo che l'esperienza internazionale, che sia dagli USA, dall'Inghilterra o da qualsiasi altro posto sia preziosa per attivare una discussione su questi temi. Francesco Prosperetti a Roma ha fatto un buon lavoro, col Colosseo e tutto il resto, ma sono cose possibili se ci sono i fondi”.

Ecco, i fondi. In America avete importanti supporti dai privati…

“Sì. Si può trattare di lasciti, come nel nostro caso al Getty, o del contributo di molti grandi collezionisti che credono nell'arte e nei musei e immettono ingenti quantità di denaro. Il Metropolitan di New York è basato per la maggior parte su denaro privato. Penso che sia un grosso errore pensare di dover delegare ogni cosa ai fondi statali, e purtroppo in Europa c'è ancora un atteggiamento quasi sospettoso verso i finanziamenti dei privati: si pensa che ci debba essere dietro qualcosa di commerciale, e che in qualche modo l'operazione possa essere compromessa e poco pulita. In realtà il problema ‘potrebbe’ esistere, ma se tutto viene fatto bene e in trasparenza il risultato non può che essere positivo. Il successo dei musei negli USA deriva da questo, e i privati che immettono denaro lo fanno con intenti positivi e nobili, credendo nell'importanza della storia dell'arte”.

 

 

Pubblicato in Il Giornale