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Oggi è il 13 Luglio 2013. Non sto raccontando una mostra, stavolta: sto celebrando il ricordo di un artista. Esattamente ottant’anni fa, infatti, nasceva Piero Manzoni. Che moriva, peraltro, pressapoco 50 anni fa, nel 1963.

Questa doppia ricorrenza verrà celebrata tra pochi mesi a Palazzo Reale a Milano, che ospiterà tra ottobre e gennaio prossimi una grande esposizione a lui dedicata, oltre ad esserlo in varie altre manifestazioni tra cui un’importante retrospettiva recentemente inaugurata (26 giugno, e fino al 22 settembre) al Museo Städel di Francoforte.

Piero Manzoni è oggi considerato uno dei massimi esponenti dell’arte concettuale, un più che degno continuatore dell’opera di Duchamp. All’epoca, però, e per molti anni a seguire, fu considerato essenzialmente un provocatore, quando non un buffone; in ogni caso, tutto fuorché un artista.

Bizzarro invece il fatto che l’opera di Manzoni abbia insistito, per tutta la durata della sua breve ma intensa vita, su un percorso teso a oltrepassare il limite tra l’arte e la non arte; a voler rendere arte tutto. E, seppur talvolta provocatoriamente, facendolo in maniera estremamente coerente, sorprendentemente efficace e sincera. Naturalmente estremista ed intenso – quasi stupisce poco che sia morto di infarto a soli 30 anni – Manzoni riuscì a compiere in poco più di un lustro di attività un percorso che riuscirà effettivamente – fino a  prova contraria – a trasformare in opera d’arte tutto ciò che esiste al mondo.

Fu con gli achromes che iniziò ad elaborare il suo concetto: opere prive di colore, quasi sempre bianche ma in ogni caso mai coperte da pigmenti, in cui era la materia – e non, appunto, il tratto o la cromaticità – ad essere protagonista. La tela stessa, o il neonato polistirolo espanso; il caolino, cui dava forme o con cui ricopriva oggetti; il cotone, la plastica, le fibre sintetiche. E lo scopo era proprio quello di superare il limite della forma, cercando di porre la concentrazione sull’essenza – ovvero sulla materia.

Il passo seguente fu quello di spostare l’attenzione su qualcosa di ancor più essenziale. Ovvero il puro concetto, l’idea. E la volontà, una volta autoproclamatosi artista, di rendere arte ogni possibile cosa. E allora gonfiava dei palloncini, “Fiato di artista”: che in effetti erano opere d’arte, in quanto generate da una sua azione. E che, se scoppiati, diventavano reliquie da incollare ad una base di legno, e quindi ulteriori opere. E invitava ad una sua mostra un pubblico a cui serviva delle uova sode firmate con la sua impronta digitale, opere da consumare all’istante.

Perfino le persone diventano opere. Manzoni infatti le firma (tra le sue “opere”, gli stessi Umberto Eco e Mario Schifano), rilasciando regolare ricevuta anch’essa firmata, a garanzia dell’autenticità. Farà poi ancora di più, firmando un piedistallo con appositi segnaposti per i piedi, su cui chiunque potrà salire, e diventare un’opera di Manzoni.

Questo suo atteggiamento quasi da “re Mida” dell’arte, in cui qualunque cosa toccasse diventasse non già oro, ma opera, si concretizzò in quella che fu la più famosa tra tutte. Nel maggio del 1961 si chiude in albergo per tutto il tempo necessario per produrre novanta scatolette di feci, che metterà poi in vendita letteralmente a peso d’oro (circa 30 grammi l’una).

Molte sono le chiavi di lettura di “Merda d’Artista”: dalla simbologia del prodotto “viscerale” dell’uomo, alla provocazione nei confronti del mercato dell’arte pronto a pagare – letteralmente – a peso d’oro qualsiasi merda un artista produca (senza contare che in effetti oggi le scatolette valgono decisamente più del loro peso in oro). Ci sono però alcuni aspetti più raffinati, generalmente poco considerati. Innanzitutto il brillante calembour tra l’aspetto scatologico dell’opera (cfr. Wikipedia: “Col termine scatologia (dal greco attico σκῶρ, gen. σκατός, “escremento”, e λόγος, “materia, ragionamento”), s’intende ogni cosa che abbia a che fare con le deiezioni.”) e le scatolette stesse. E poi un altro retroscena, e un altro gioco di parole, se possibile ancora più sorprendente: Piero Manzoni, oltre che parente alla lontana del più famoso Alessandro, era il rampollo (… o la pecora nera?) di un’altra dinastia di Manzoni. Ovvero, i signori che producevano la carne in scatola Manzotin. Lo stesso nome del prodotto è un gioco di parole tra Manzoni, il manzo contenuto nella scatola e il termine inglese “tin” che significa – appunto – scatoletta di latta. Quasi come dire che dentro le scatolette di Manzotin c’era un po’ di un Manzoni. E dentro alle scatolette di Piero, decisamente, anche. Ma con un approccio certamente più geniale.

Il percorso di Manzoni si concluderà idealmente, l’anno seguente, con l’opera a mio parere più sorprendente di tutte. La “Socle du Monde”, ovvero lo zoccolo del Mondo. Un piedistallo installato nel parco di una fabbrica danese. Capovolto al suolo. Per trasformare definitivamente il mondo intero, e tutto ciò che si trova su esso – animali, vegetali, sassi, esseri umani – in un’ Opera d’Arte.

Per questo sentitamente e sinceramente ti ringrazio, Piero. E buon compleanno a te.

 

 

Pubblicato in ArtsLife

Esistono modi diversi per raccontare un artista: ovviamente visitando le mostre, piccole o grandi, che permettono di vedere dal vivo i capolavori dei pittori e degli scultori che amiamo. Ancor più affascinante, però, è – quando ne abbiamo la possibilità – riuscire a parlare direttamente con gli autori. E scoprirne, oltre all’aspetto creativo, il lato umano.
Uno degli artisti che riteniamo umanamente più interessante – chiaramente, non avendolo conosciuto, soltanto avvalendoci dei dati biografici più noti – è Piero Manzoni. A lui Palazzo Reale di Milano, fino al 2 giugno, dedica la più grande mostra antologica finora realizzata in Italia. La sua eredità è ancora viva e attiva, Piero continua a essere una figura estremamente influente nell’arte moderna, oggi come cinquanta anni fa.

Un peccato, insomma, non potere intervistare una mente visionaria come la sua e non poter incontrare l’uomo, oltre all’artista. Grazie alla gentilezza della famiglia Manzoni, però, siamo riusciti a sopperire a questo fatto. Abbiamo incontrato il fratello Giacomo, testimone diretto del Piero ancora vivente e attivo, Valeria, Antonio, Luisa e Antonietta, figli dei fratelli e delle sorelle dell’artista. Non hanno conosciuto direttamente Piero e hanno intrapreso percorsi completamente diversi tra loro, ma hanno vissuto nell’ambiente familiare di Manzoni. Avendo ascoltato storie e aneddoti su lui, possiamo affermare che rappresentano  una sorta di incarnazione dell’eredità che Piero ha lasciato.

 

Piero Manzoni con il fratello Giacomo

Giacomo Manzoni di Chiosca, lei era il fratellino minore di Piero. Comincio col chiederle un’opinione sulla mostra di Palazzo Reale.
Purtroppo non sono ancora riuscito ad andare alla mostra, e me ne dispiaccio. Si tratta sicuramente di un evento importante: Piero ha sempre voluto bene a Milano e Milano ha sempre voluto bene a Piero.

Che cosa ha portato a questa esposizione, che cosa – o chi – dobbiamo ringraziare, a parte ovviamente l’arte di Piero?
Chiaramente la Fondazione Manzoni è stata una componente importante per poter diffondere il nome di Piero un po’ in tutto il mondo, e naturalmente anche Milano si è poi risvegliata a seguito delle altre mostre che sono state fatte in Germania, negli Stati Uniti e così via. Piero già da ragazzo era un personaggio internazionale. A Milano era un po’ meno considerato, ma nei paesi nordici la sua arte era apprezzatissima. L’ultimo viaggio che aveva fatto in Belgio era stato un piccolo trionfo per lui e infatti era tornato davvero felice di quell’esperienza.

Stando a quello che lei ha visto, quali delle opere di Piero è stata quella che lo ha reso più soddisfatto e per la quale pensava di aver toccato i vertici? E quale quella che lo ha tormentato di più, e perché?
Senz’altro gli Achrome, tele grinzate. Erano tra le sue prime opere bianche e con quelle aveva staccato con le precedenti. Oltre naturalmente a quei monumenti molto particolari come la Base del Mondo o la linea lunga sette chilometri e più. Lo tormentavano invece i tanti progetti che aveva in corso e che desiderava ardentemente realizzare: in particolare il “Teatro Pneumatico”. Ricordo che ero al secondo anno di ingegneria, e lui mi diceva “ma perché non mi progetti la struttura del teatro? Ho già ideato tutta la forma…” Io gli spiegavo che non ero ancora in grado di progettare una struttura così complessa. Mi coinvolgeva spesso nei suoi lavori perché eravamo molto affiatati: io ero già all’università, non ero più un bambinetto e gli davo una mano dove possibile. Ero appassionato di chimica, per cui in tutti i lavori per cui questa fosse necessaria cercavo di aiutarlo. Ma anche lui aveva una grandissima manualità.

Quale invece il lavoro di suo fratello che lei ha sempre amato di più? E perché?
A me piacciono moltissimo le cosiddette “nuvole”, quei ciuffi di lana di vetro. Ma è solo una questione legata al mio senso estetico.

Una domanda che è giusto fare a lei piuttosto che alle altre sorelle, perché lei era più piccolo di Piero. Cosa rappresentava per lei questa figura che per il pubblico rappresenta quasi una leggenda?
Mi ricordo momenti di dolcezza, di tenerezza… Spesso si lavorava tutti insieme, per esempio le famose linee hanno impegnato un po’ tutti quanti, perché c’era da tirare di qui, spingere di là, e aprire tutte le porte perché dovevano arrivare dalla parte opposta della casa per poter fare una linea lunga 21 metri…
Per me Piero era un modello – più che per la sua arte, che da piccolo non riuscivo a seguire – per certi suoi atteggiamenti, per le sue capacità, per come viveva la vita. Da certi punti di vista era un esempio per tutti, anche se, come in tutte le famiglie, ci sono state anche situazioni di contrasto: la nostra famiglia è sempre stata molto religiosa e quando ad un certo punto lui ventenne si disinteressò alla cosa per la mamma fu doloroso. Più tardi però, l’unica vera preoccupazione che aveva la mamma era il fatto che avesse poca cura della sua salute. Noi eravamo giovani, ci sembrava impossibile l’idea di poter morire a quell’età, e quindi lo prendevamo in giro perché era diventato grassottello e certe volte gli faceva male il fegato; invece la mamma era davvero preoccupata.

Devo chiederglielo per forza. Ma non voglio chiederle cosa ci fosse realmente nel barattolo. Le chiedo soltanto: allora, da ragazzino, lei credeva veramente che dentro ci fosse merda d’artista?
Non mi ero posto il problema, però ricordo un aneddoto divertente: Piero aveva finito da poco di fare questa serie e doveva sdebitarsi con un amico. Mi chiese un consiglio su cosa potesse regalargli: io gli consigliai di regalargli uno dei suoi barattoli. Lui allora mi disse: “Non si regala della merda a un amico!”.

 

Abbiamo poi posto quattro domande ai quattro nipoti di Piero. Ad ogni cugino le stesse, in una sorta di intervista quadrupla, per mettere a confronto i loro punti di vista.

Voi tutti avete in comune parte del patrimonio genetico con vostro zio Piero. Se voleste cercare in voi a livello professionale ma anche personale tracce dei geni comuni a quelli dello zio, in cosa li ritrovereste?

Valeria De Rege (figlia di Mariuccia, sorella maggiore di Piero, e sua prima nipote. Vive su un’isola del Canada ed è un’artista. Si chiama come la nonna Valeria, mamma di Piero)
Non credo di assomigliargli molto, ma forse il mio figlio più grande ha un certo sguardo, un certo sorriso che gli assomigliano, e anche quell’aria un po’ birichina… Però anche io sono un’artista, dipingo, faccio mosaici. Inoltre, come lui ho sempre scelto ciò che mi diceva il cuore e ciò che mi pareva bello e giusto per me stessa. E nel fare questo mi è spesso toccato dare qualche dispiacere ai miei genitori, che forse avrebbero voluto che io facessi altro.

Valeria de Rege

 

Antonietta Pasqualino di Marineo (figlia di Elena, seconda sorella maggiore di Piero, vive a Milano ed è una chef)
Lui era particolarmente creativo e geniale. Cosa che non è che non rivedo in me, ma di certo non a quei livelli. Ora la cucina va molto di moda, ma io cucino da quando ero piccola e non l’ho mai vista come una forma di arte, piuttosto come qualcosa di più legato al fare, al materico, qualcosa da consumare. Amo molto l’aspetto del realizzare per poi consumare. Forse le cose in comune possono essere quelle educative e non genetiche: lui aveva ricevuto un certo tipo di educazione da nostra nonna che credo sia in parte quella che noi abbiamo ricevuto da nostra madre, legata al rispetto e alle regole della vita di tutti i giorni.

Antonietta Pasqualino di Marineo

 

Antonio Manzoni di Chiosca (figlio di Giacomo, fratello minore di Piero. Vive a Torino ed è un ingegnere)
Abbiamo studiato le stesse cose fino a un certo punto, poi lui si è diretto verso gli studi di giurisprudenza e io invece ho studiato ingegneria come mio padre e mio nonno materno. Io non sono per niente portato al disegno, mentre lo zio era bravissimo a disegnare: infatti le sue opere iniziali sono dei paesaggi, dei quadri anche molto accademici ma che dimostrano che era veramente molto bravo con il pennello in mano. Questo credo lo avesse preso da sua madre, la nonna Valeria che era veramente un’artista anche se non lo ha mai fatto per vivere. Sicuramente in comune con lui ho un fortissimo legame con la famiglia.

Antonio Manzoni di Chiosca

 

Luisa Manzoni di Chiosca (figlia di Giuseppe fratello più piccolo di Piero Manzoni, lavora in una casa editrice)
Mi ha trasmesso la passione per l’arte, insieme a mio padre (storico dell’arte) a quella contemporanea in modo particolare. Inoltre ho ereditato alcune caratteristiche quali la cordialità, l’interesse per le persone, la capacità di instaurare rapporti con gli altri. E anche lo spirito di iniziativa. Tutte doti molto “manzoniane” e che mi sono molto utili nel mio lavoro, anzi, mi ci hanno condotto quasi spontaneamente.

Luisa Manzoni di Chiosca

 

Vorrei chiedere proprio a voi, che non lo avete vissuto direttamente, qualcosa sull’uomo Piero. Forse lo vedete circondato da un’aura diversa dai vostri genitori,  quasi mistica. Però quest’aura può essere a volte alimentata o – al contrario – sdrammatizzata dai racconti familiari.

Valeria: I racconti di mio padre erano più che altro storie di fughe notturne di giovani che uscivano, andavano a bere, andavano al cinema e si divertivano. Però mi ha anche detto che nonostante la sua vita da artista, era molto legato alla famiglia ed era sempre presente in occasione di feste e ricorrenze. Io sono l’unica che Piero ha conosciuto tra tutti i miei cugini e mia madre mi ha raccontato che quando ero molto piccola, durante il mio primo Natale, lui era venuto a trovarmi ed era molto preoccupato che io cadessi perché cominciavo appena a camminare muovendo i primi passi. Evidentemente non era abituato ai bambini…

Antonietta: Ricordo in particolare di mia madre che mi raccontava che quando lo zio fece la performance sul “mangiare l’arte” con le uova sode, la nonna tornando a casa si era trovata questo conto di non so quante uova da pagare… e si era spaventata molto, però non per la spesa, ma perché lo zio aveva il colesterolo alto e avrebbe dovuto stare a dieta. Quindi era terrorizzata dall’idea che avesse potuto consumare 150 uova!

Antonio: Mia madre è molto più piccola di Piero e ha un unico ricordo. Essendo la più piccola del gruppo era sempre oggetto di scherzi da parte degli amici. E un’estate in cui giocando al mare in acqua hanno esagerato cercando di affogarla per scherzo lei si ricorda benissimo dello zio Piero che è intervenuto per fermare questo gioco stupido. Il ricordo di un uomo grande che è intervenuto per salvare una bimba.

Luisa: Negli anni in cui lo zio Piero dipingeva ancora sotto l’influsso degli Spazialisti e dei Nucleari, per un certo tempo utilizzò come atelier una vecchia cucina in disuso in un’ala poco usata dell’antica casa di famiglia Meroni. Mio padre allora frequentava la quarta elementare e spesso, con due amichetti, si avventurava a esplorare i più riposti locali di quella grande casa.
Un giorno si sono trovati nel locale dove lo zio Piero dipingeva e con entusiasmo e incoscienza infantili si misero a giocare ai pittori, imbrattando dei fogli da disegno con i preziosi (e costosissimi) tubetti di colore professionali che avevano trovato. Quando lo zio Piero lo scoprì gli fece una lavata di capo memorabile: non aveva mai visto suo fratello così arrabbiato con lui, di solito nei suoi confronti era molto gentile e affettuoso.

 

Cosa pensate dell’arte di vostro zio? Vi piace?

Valeria: Mi piacciono gli achromes. Le tele grinzate che vedevo nel salotto di mia nonna… Sono ricordi di bambina, andavo in un luogo che per me era molto piacevole e vedevo queste opere bianche con solo qualche linea che suggeriva un pensiero, una sensazione. Il bianco crea spazio e senso di libertà.

Antonietta: Mi piace l’arte di mio zio, fa parte della mia vita totalmente. Fin da piccola ho sempre vissuto vedendo le sue opere attaccate alle pareti di casa della nonna. Quindi mi piacciono tutte, anche se poi ovviamente ce ne sono alcune che preferisco a livello estetico. Le tele grinzate e le grandi lane di vetro, ad esempio. Poi ci sono le cose più divertenti, come la Merda e il Fiato d’Artista, che sono più geniali ma meno belle a livello estetico.

Antonio: Mi piace decisamente la sua arte, sarà anche perché l’ho sempre vissuta come parte della famiglia e l’ho sempre vista in casa della nonna. Secondo me lui ha anticipato tutta l’arte moderna e dopo di lui c’è stato ben poco di nuovo. Mi è capitato di andare diverse volte ad Artissima, qui a Torino, vedere esposte delle opere e pensare “ecco, questo lo zio lo aveva già visto, lo aveva già fatto o lo aveva in qualche modo già intuito”. Sarò banale, ma mi piacciono gli achromes, le sue tele grinzate, che poi sono state l’apice della sua arte. Ce ne sono alcune meravigliose, quella che c’è alla GAM qui a Torino è bellissima.

Luisa: Pur studiando Scienze Politiche, avevo inserito l’esame di Storia dell’Arte nel piano di studi: ho così potuto provare il piacere e l’orgoglio di riscoprire criticamente quello zio che già conoscevo. Lo zio Piero è una figura centrale dell’arte contemporanea, con le sue opere propone interrogativi fondamentali e apre strade nuove, precorrendo di decenni gli sviluppi successivi: insomma, un genio assoluto. Le sue opere che preferisco sono gli achromes con i sassolini.

 

Concludendo in maniera un po’ scontata… ci provo anche con voi. Ditemi la verità. Cosa c’era veramente nelle scatolette?

Valeria: Non so cosa ci fosse nelle scatolette, ma se lo sapessi non lo direi. In fondo, cosa importa? Non lo so e non lo voglio sapere. Sapere rovinerebbe tutto.

Antonietta: Non lo so, veramente. Quando ero più piccola mi capitava che la nonna me le facesse spostare, ma essendo chiuse non si capiva cosa ci fosse dentro. E non credo sarebbe stata una buona idea aprirle. Una scatoletta di merda di artista non la avrei mai aperta!

Antonio: Io personalmente non ne ho idea, non ne ho mai neanche toccata una, le ho sempre viste esposte dentro delle bacheche. Immagino però che ci sia quello che ha dichiarato. Era una persona seria lo zio!

Luisa: Sicuramente ci sarà merda!

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