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Alla 57ma Biennale di Venezia quest’anno, al padiglione della Repubblica di San Marino, c’è  Giovanna Fra, artista pavese di formazione milanese, invitata dal curatore Vincenzo Sanfo a dialogare con un gruppo di artisti cinesi sulla pittura a inchiostro, le sue origini e i suoi sviluppi.
Si tratta di una delle varie manifestazioni in cui Fra è coinvolta in questi stessi giorni; eventi che vanno dalla collaborazione con Giovanni Allevi – l’artista è fortemente legata all’interazione tra musica e arte – che avverrà nella prima metà di luglio, a LODOLAFRA, una “doppia personale” in collaborazione con l’icona moderna dell’arte Pop italiana Marco Lodola.
Abbiamo incontrato Giovanna per rivolgerle alcune domande in merito a questi appuntamenti, al rapporto tra l’arte e la musica, e alla sua opera.

Volevo innanzitutto parlare di LODOLAFRA. I vostri linguaggi sono senz’altro diversi, ma trovano un potente punto di incontro in quelli che sono probabilmente i minimi comun denominatori delle arti visive, ovvero la luce innanzitutto, ma anche il colore e se non i materiali, quanto meno la matericità. Quali ritieni possano essere i punti in comune tra le vostre visioni?
La nostra visione dell’arte è decisamente all’opposto, a partire proprio dall’uso di materiali completamente differenti; l’unione, come dici, sta proprio nel colore e nella forza del colore stesso. Nei lavori fatti assieme, io intervengo coi miei gesti pittorici sul plexiglass: i gesti vengono quindi quasi contenuti, diventano quasi un’astrazione all’interno di qualcosa di figurato che sono le immagini ritagliate in plexiglass di Marco, soprattutto le sue riconoscibilissime ballerine su cui ci siamo particolarmenteimage (7) concentrati, anche se poi sicuramente questo nostro incontro si evolverà. Quindi direi che da visioni del tutto differenti ci cerchiamo e ci troviamo tramite il colore e la matericità del gesto pittorico che gioca all’interno della figura ritagliata.

Tra l’altro anche Lodola, come te, è molto legato al dialogo con il mondo musicale…
Anche in quello l’approccio e la modalità è comunque differente, perchè le sue sono vere e proprie collaborazioni  con artisti di grande livello dei contesti del rock o del pop italiano. La mia visione è invece sempre stata evocata dal gesto a livello più che altro poetico e legata alla classicità della musica. Per cui anche da questo punto di vista il nostro incontro stride e nello stesso tempo si strizza l’occhio. Per me è davvero molto esaltante incontrarmi con un artista come lui che si è sempre confrontato con grandi nomi, è un passaggio importante.

 

Ma anche tu fin dall’inizio ti sei confrontata con grandi nomi. Il rapporto tra la tua arte e la musica è sempre stato molto importante, a partire dalla tesi di Laurea dedicata a John Cage.
ll tutto parte dagli studi d’arte che ho intrapreso a Brera: mi sono diplomata in storia della musica, oltre che in pittura, e ho fatto una tesi con un musicologo che mi ha aiutata a tradurre il mio segno pittorico astratto in suono. In musica il suono non sempre è armonico: può anche farsi disarmonia, essere astratto o grintoso e non sempre piacevole. E improvvisato, come nella musica jazz. Il mio modo di dipingere è sempre stato accostato alla musica jazz per via del mio costante ricorso alla improvvisazione e alla casualità. di una casualità però data da un animo che si riproduce nel fare pittura, nel fare arte. Non so se sono riuscita a spiegarmi perchè è molto difficile raccontare la propria poetica.

Pensando a Cage, leggevo della collaborazione con Jasper Johns a certe coreografie di Cunningham: il coreografo nell’occasione sembrava sostenere – e Cage con lui – che la reale interazione tra arte e musica è totalmente affidata ai sensi del pubblico, e che di fatto esse sono piuttosto slegate tra loro. Qual è il tuo punto di vista?
È esattamente così: la fusione avviene a livello sensoriale. Il segno stesso, peraltro, è come una successione di note musicale slegate l’una dall’altra. E, restando nell’ambito strettamente musicale, Cage diceva addirittura che il rumore che c’è attorno ad una composizione di note musicali diventa anch’esso parte dell’opera. Tanto è vero che lui inserisce nel suo pianoforte degli attrezzi da lavoro proprio per creare rumore e disarmonia nel suo modo di suonare lo strumento, e fa anche interagire il pubblico mentre lui si esibisce sul palcoscenico. Anche questo è molto jazz come atteggiamento, addirittura va oltre il jazz. Cage è geniale. È un atteggiamento dove in arte rientra tutto, non solo il bello estetico e l’armonia delle cose, ma anche il disturbo, rumore, la sgradevolezza. Quindi l’arte non rappresenta solo ciò che è bello, ma deve rappresentare un po’ tutto. Un concetto che arriva dall’Oriente, dove tra l’altro gli orientali 1 (12)considerano nella loro musica non l’armonia continua ma il singolo suono, la nota musicale staccata l’una dall’altra; di conseguenza, per loro le pause sono molto importanti, nella musica come anche nell’arte. E le pause per me rappresentano la parte bianca del dipinto, la parte della tela dove io non pongo il mio tratto, dove l’occhio può respirare e saltare dinamicamente su un altro colore, su un’altra macchia o su un altro segno. Le pause che diventano parte dell’opera.

La multimedialità delle tue ipergrafie è ricerca di sinestesia?
Certo, contaminazione dei sensi, ma anche immagine della pittura stessa. Attraverso la fotografia, che ingrandisce particolari di alcuni miei dipinti o comunque dettagli su cui indago, attraverso quell’immagine che è una macro ingigantita, io creo già delle basi su cui lavorare successivamente e pittoricamente. Quindi è un dialogo tra la fotografia – ovvero il mezzo tecnologico – e la pittura, ma allo stesso tempo è un’indagine un po’ concettuale sulla pittura stessa: un particolare di un quadro più grande e figurativo, preso nella sua piccola porzione, è un quadro astratto, un piccolo quadro astratto. Ecco perciò che nell’astrazione c’è il figurativo e nel figurativo c’è l’astrazione. Questo mio approccio deriva senza dubbio anche dal mondo del restauro: prima di dedicarmi alla sola pittura sono stata per 25 anni restauratrice di tele e affreschi, e questo tipo di indagine sulla materia e sul particolare deriva sicuramente anche da quei miei studi e da quel mestiere.

Il 10 luglio a Pistoia le tue videoproiezioni accompagneranno i concerti di Giovanni Allevi. Puoi raccontarci qualcosa di più?
Si tratterà sempre delle mie ipergrafie che anziché essere su tela, fissate a una parete, verranno tradotte sulle facciate di un importante palazzo di Pistoia e proiettate durante il concerto. La cosa meravigliosa è che il mio lavoro, che ha a che fare con le note musicali e con la musicalità del colore, del segno e della pittura, accompagnerà le note musicali del grande Giovanni Allevi. Questa cosa mi entusiasma davvero. C’è già stata una scelta delle immagini delle mie opere che il tecnico dell’immagine e del suono Claudio Cantoni trasformerà nella proiezione che, in modo lento e progressivo, accompagnerà Allevi. Onestamente non vedo l’ora di vederne la realizzazione dal vivo.

Qual è la differenza di approccio tra la contaminazione dell’arte con la musica colta – che forse può apparire più naturale – e quella con la musica popolare, seppur d’autore?
Non vedo molta differenza; forse sta solo nel fatto che con la musica colta è in un certo senso “ammessa” una sperimentazione meno limitata, dove l’artista può lanciarsi ad indagare mondi nuovi. Lo dico pensando in particolare proprio a John Cage. Nella musica pop l’approccio è più immediato, comunicativo, giovane e fresco se vogliamo. Come può essere l’approccio che ha Marco con gli artisti con cui si confronta, che fanno pop e che sono anch’essi, comunque, grandi musicisti.

Se dovessi pensare a un musicista con cui vorresti confrontarti?
Purtroppo non c’è più ed è David Bowie, quindi non potrò mai più farlo. Però posso dire che abbiamo fatto una collettiva, tempo fa, in cui ogni artista ha lavorato sull’immagine del Duca Bianco: abbiamo esposto sia in luoghi pubblici che privati e di fatto la mostra è tuttora in corso e prossimamente potremo rivederla a Sanremo, all’interno del teatro Ariston.

Mi racconti della tua partecipazione alla Biennale?
Sono stata invitata ad esporre nel padiglione della Repubblica di SAN Marino e a confrontarmi con artisti cinesi: proprio perché il mio segno richiama la cultura orientale mi hanno messo in dialogo con questi artisti, che a loro volta si confrontano invece con la pittura occidentale. Un dialogo molto forte e molto bello, un’interazione di volontà vicendevole di scoprirsi e scoprire le diversità delle due culture. Inoltre il loro essere figurativo è sempre molto lieve, leggero e ben si armonizza con il tipo di pittura che faccio io.

Nel tuo lavoro qual’è stata la cosa che maggiormente ti ha ispirata?
Come accennavo prima, sicuramente il mio lavoro di restauro, questo continuo contatto con la materia, con la pittura; Il cercare di capire, di penetrare un quadro proprio perché lo devi restaurare in profondità e quindi devi capirne ogni cosa, indagarne la materia. Il rapporto con le opere da restaurare – quindi di epoche più remote – mi ha inoltre sempre portata a evocarle pittoricamente, anche con l’uso di colori che se vogliamo richiamano il passato, ma che si fanno contemporanei. Il mio lavoro prende molto da ciò che già è stato.

Pubblicato in Il Giornale