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Dal 23 al 25 agosto, in Valle d'Itria, si svolge la decima edizione del Festival dei Sensi. Saranno ospiti di questa nuova edizione, dedicata al Fiabesco, molti nomi di spiccato interesse del panorama culturale italiano.
Si tratta di un "festival diffuso", che vuole creare un legame tra la cultura e la bellezza del luogo che lo ospita, tra i più suggestivi della Regione: la valle dei trulli.

In questo viaggio tra scienza, cultura e incanto, che passa dal racconto vero di scoperte archeologiche ai buchi neri e ai misteri dell'universo, alle fiabe vere e proprie, al loro rapporto con la musica, al fiabesco nel cinema come nella cucina, al fumetto e alla filosofia, fino al sogno e al sonno, c'è anche spazio per l'altra faccia delle storie. Quella reale, testimoniata da giornalisti, e da fotoreporter. Anzi, dal più grande tra tutti i fotogiornalisti italiani: Federico Patellani. A curare la sua mostra "L'Italia Fiabesca" sono Kitti Bolognesi e  Giovanna Calvenzi. Giovanna Calvenzi è stata assistente negli anni universitari di Patellani stesso, oltre che di Cesare Colombo e Toni Nicolini, compagna di Gabriele Basilico, ha curato mostre, insegnato storia della fotografia, linguaggio fotografico e photo editing, è stata photo editor di numerose riviste tra cui Amica e Sportweek, ha collaborato con Il Fotografo, Capital, Domus, Interni, è stata capo redattore di Max, direttore della fotografia di Vanity Fair e direttore di Lei Glamour. Abbiamo fatto alcune domande a Giovanna Calvenzi, su questa mostra e sulla fotografia in generale.

 

Ricordare, documentare, esprimere: queste erano le funzioni essenziali del gesto fotografico fino a una quindicina di anni fa. E oggi?

Io credo che oggi lo spettro delle funzioni sia molto più ampio e meno limitato, anche se quello che lei dice non è certamente dimenticato, è sempre centrale: per esempio, è sempre imprescindibile la componente relativa alla documentazione.

 

Nel caso del reportage gli smartphone sempre pronti all'uso non sono forse qualcosa di utile?

No, io non ci credo, seppure negli anni passati si sia parlato molto spesso di quelli che venivano definiti i citizen photographers, ossia dei testimoni "casuali" degli eventi che con i loro telefoni avrebbero potuto fare informazione. La domanda semmai è un'altra: che utilizzo fanno i giornali della fotografia? Praticamente nullo, è solo decorazione in questi ultimi tempi. Ecco perché l'esistenza dei citizen photographers non ha in nessun modo modificato il mondo del fotogiornalismo.

 

L'enorme quantità di fotografie scattate e immediatamente esposte ogni giorno, ora, minuto da chiunque nel mondo non rischia di allontanare ulteriormente la fotografia dall'essere considerata arte?

Secondo me no. Io, se vogliamo, ho sempre una visione abbastanza ottimistica della realtà. Ad esempio come tutto questo parlare che si fa del mangiare, con la proliferazione dei cuochi e dei super cuochi, degli chef e dei super chef ha come conseguenza una maggiore attenzione alla qualità del cibo, allo stesso modo questo potrebbe accadere con la fotografia. Nel senso che tutti fanno malamente milioni di fotografie, ma a molti può venire la curiosità e la voglia di passare dal "malamente" a un "correttamente": c'è quindi la possibilità che il produrre immagini di nessun interesse possa suscitare la voglia di capire cosa sia davvero la fotografia, di conoscere, di studiare, di migliorare.

 

È colpa delle nuove tecnologie se oggi è sempre più difficile vivere facendo il fotografo?

No, io ritengo che come in tutte le fasi di grande cambiamento si sappia da dove si parte, ma non dove si arriverà. È certo che l'editoria in generale - e parlo soprattutto dell'editoria periodica, perché quella quotidiana va per la sua strada da sempre e non è mai stata famosa per utilizzare in modo interessante la fotografia - sia stata nel corso del tempo piuttosto miope: invece di puntare sulla qualità ha creduto nella riduzione dei costi, delle persone e di tutto il lavoro. Personalmente credo che ci sia stata, in questa scelta, una grande miopia da parte di molti editori, e che questa sia una delle cause dell'uso poco interessante che oggi si fa della fotografia sui giornali.
In ogni caso è certamente aumentato il numero dei fotografi, ma pazienza: quelli bravi restano bravi ed emergono.

 

E quali consigli darebbe a una persona che voglia fare, oggi, della fotografia il proprio mestiere? Di quella artistica, piuttosto che del fotogiornalismo?

Volendo considerare la fotografia alla stregua di qualsiasi altra arte - in senso molto lato, comprendendo se vogliamo anche la cucina, il design e tutto quello che prevede l'aspetto creativo - diciamo che l'unico strumento per avere successo è la passione: è l'unica cosa che conta davvero, e l'unico suggerimento che si dovrebbe dare onestamente è "se ci credi davvero, provaci". Non ci sono altri consigli possibili. Lei desidera scrivere? E allora si metta al computer, e scriva, e proponga quello che ha scritto a qualcuno; non ci sono né scorciatoie, né altre vie. La regola numero uno è crederci, pensare di essere capaci di farlo e poi cercare le strade affinché anche altri se ne accorgano.

 

Oggi che le riprese video sono alla portata di tutti, quale potrebbe essere il vantaggio del fotoreportage rispetto al videoreportage?

Innanzitutto sono tecniche completamente diverse: chi fa un video è condizionato da una fase di montaggio, dal sonoro, dal bisogno che qualcuno risponda e dal mettere insieme tutto. Chi invece fa un servizio fotogiornalistico può scattare silenziosamente, essere presente in molte situazioni ma costruire la propria narrazione a posteriori, senza bisogno di una continuità di tempo e di luogo di cui invece il video ha bisogno.
Sono due scuole diverse, non sono paragonabili o intercambiabili; al massimo si affiancano, ma non sono in conflitto.

 

Continuando a parlare di fotogiornalismo, lei è stata assistente di Federico Patellani. Vuole raccontarci l'influenza che ha avuto questa collaborazione con quella che poi è divenuta la sua carriera?

Certamente c'è stata un'influenza anche se io non ho mai fatto la fotografa: facevo l'assistente scrivente. Lui mi ha presa con sé perché ero brava a scrivere a macchina, ero brava a stenografare, ero brava a tradurre dall'inglese. E perché ero brava a fargli i riassuntini: quando ho iniziato a lavorare con lui era il periodo in cui si dedicava ai grandi viaggi. Stava progettando un giro del mondo sui luoghi dei pirati, dalla Malesia al Borneo; quindi io dovevo leggere i libri e fargli dei riassuntini di Drake, delle storie dei pirati malesi, e via dicendo. Poi intervenivo quando lui mandava le immagini, dovevo farle sviluppare, andare all'aeroporto a ritirarle... insomma, ero una assistente non necessariamente fotografica. È certo che mi ha insegnato come si progettano i servizi fotografici, mi ha fatto capire come la fotografia possa davvero raccontare delle storie. E questo mi è stato molto utile. Il mio lavoro è sempre stato quello di fare il photo editor, di occuparmi della parte visiva all'interno di una redazione di un giornale.

 

Poi probabilmente sarà stato importante anche il confronto con Gabriele Basilico ma sicuramente è una cosa venuta dopo, quando ormai questa carriera l'aveva intrapresa...

In realtà no, perché quando sono andata a lavorare da Patellani stavo già con Gabriele: lui era ancora studente di architettura e io ero studentessa di lettere, e contemporaneamente facevo l'assistente di Patellani per mezza giornata. Diciamo che da Patellani, insieme, io e Gabriele abbiamo imparato il rispetto per la fotografia, che vuol dire anche creare un archivio funzionante, dove sia possibile ritrovare, catalogare tutto quello che si è fatto. Per Gabriele la lezione di Patellani è stata formidabile, anche se avevano interessi completamente diversi; però l'archivio di Gabriele è strutturato esattamente come quello di Patellani.
In ogni caso, io e Gabriele non abbiamo mai lavorato insieme, quindi la sua lezione consiste in quello che suggerivo prima a un aspirante fotografo: per lui la fotografia era un modo di vivere la propria vita e il proprio lavoro con grande passione, con grande determinazione e anche con grande allegria. Qualcosa di importante, perché lavorare stando bene al mondo è una bella lezione per tutti. Io stessa facevo un altro lavoro che mi piaceva fare e che mi piace fare tuttora. Gabriele era sorridente e sereno quando fotografava, poi quando tornava in studio e doveva fare una fattura era una tragedia perché non sapeva farla; non sapeva scrivere bene a macchina e usava malissimo il computer. Però quando fotografava o organizzava i suoi libri o le sue mostre era al massimo della contentezza.

 

Lei è una delle curatrici della mostra di Patellani "L'Italia Fiabesca" all'interno del Festival dei Sensi il cui tema quest'anno è il fiabesco. Certamente Patellani è sempre stato testimone della Storia del nostro Paese, ma qui la storia si trasforme in fiaba... che cos'è questa "Italia Fiabesca" della mostra?

Credo che l'immediato dopoguerra, a partire dal 1945, con la voglia di ricostruire, con l‘impegno collettivo, nel voler superare la fine di un periodo straziante abbia delle caratteristiche quasi fiabesche. E Patellani è stato il testimone più acuto e più ampio del periodo della ricostruzione, che era ricostruzione non solo edilizia, delle fabbriche e del lavoro, ma anche di altri aspetti che hanno portato alla nascita di nuovi miti che poi magari sarebbero anche degenerati. Lui ha raccontato la rinascita del cinema italiano, la ripresa dei concorsi di bellezza, i nuovi salotti letterari e premi letterari, l'inizio del boom, i viaggi, lo sviluppo delle università in Europa. È stato testimone di una serie di cose che, riviste a settanta anni di distanza, per me hanno qualcosa di fortemente fiabesco. Per la grande positività che si leggeva in tutte quelle speranze.

 

Nella mostra cosa vedremo?

C'è uno sguardo un po' trasversale su tutto il suo lavoro, che unisce qualcosa dei concorsi di bellezza alla rinascita del cinema, e alla rinascita delle città. E per l'occasione abbiamo preparato una piccola sezione dedicata al Sud, in particolare alla Puglia degli anni Quaranta e Cinquanta. Perché ogni anno lui andava al Sud, che amava molto: prima in macchina, poi in treno e infine in aereo, per testimoniarne la ricostruzione. E spesso, purtroppo, la non ricostruzione.

Pubblicato in Il Giornale