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La 58. Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia è aperta al pubblico fino al 24 novembre 2019. Dal titolo “May You Live In Interesting Times” è curata da Ralph Rugoff.
«Il titolo di questa Mostra può essere letto come una sorta di maledizione – ha dichiarato il Presidente Paolo Baratta – nella quale l’espressione “interesting times” evoca l’idea di tempi sfidanti e persino minacciosi. Ma può essere anche un invito a vedere e considerare sempre il corso degli eventi umani nella loro complessità, un invito pertanto che ci appare particolarmente importante in tempi nei quali troppo spesso prevale un eccesso di semplificazione, generato da conformismo o da paura. E io credo che una mostra d’arte valga la pena di esistere, in primo luogo, se intende condurci davanti all’arte e agli artisti come una decisiva sfida a tutte le inclinazioni alla sovrasemplificazione.»

Nabuqi – Do real things happen in moments of rationality? (2018)
Nabuqi esplora gli aspetti estetici e materiali degli oggetti scultorei e mantiene i suoi assemblaggi scevri da implicazioni o funzioni narrative. L’artista impiega elementi ready-made e costruisce degli scenari inclusivi, generando sensazioni di déjà-vu stabilendo connessioni tra gli oggetti e ciò che li circonda. Do real things happen in moments of rationality? si compone di un mix eclettico di materiali che evocano un’ambientazione naturale. Secondo l’artista gli oggetti industriali e quelli di natura decorativa di questo assemblaggio “sembrerebbero simulare una sorta di realtà oppure alimentare un’immaginazione di un’estetica virtuale, piacevole e ospitale”. Messi insieme questi materiali disparati si misurano con il limite che passa tra il reale e l’artificiale, invitandoci a riflettere su quali sono gli elementi che potremmo percepirecome realtà.

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Nascono da un'idea del Gruppo Hdrà in collaborazione con Le Giornate degli Autori gli incontri di Domani Accadrà: tre serate di talk events sulla cultura e sulla società a margine della 75ma Mostra del Cinema di Venezia, incentrate su slogan tematici che guidano a una riflessione su specifici concetti.

"È in questo contesto che è stato presentato - fuori concorso - "Why Are You Creative?", film del regista Hermann Vaske, intervenuto accanto a Marina Abramovic per parlare di creatività, di cosa sia e del perché esista. Il film, che uscirà distribuito con I Wonder Pictures nel 2019 e che è stato presentato come evento speciale alle giornate degli Autori, rappresenta un viaggio lungo vent'anni in cui il regista ha girato il mondo e parlato con decine delle più fertili menti dei nostri tempi, in campo artistico, scientifico, umanitario - tra cui, appunto, l'artista serba - cercando tramite le loro testimonianze la risposta a questa questione." Abbiamo incontrato la Abramovic per una intervista.

Marina, partiamo dalla domanda più ovvia, quasi banale: cos'è la creatività?

"Si tratta di qualcosa che esiste da quando esiste l'umanità stessa. Da quando l'uomo primitivo ha iniziato a disegnare sulle pareti delle sue caverne è iniziata la storia dell'espressione creativa: non bastava il cibo per nutrirsi, occorreva anche del nutrimento per lo spirito. È quindi una parte fondamentale dell'esistenza umana; come il respiro, che si fa senza porsi domande... si respira, e basta". Crede che la creatività debba inevitabilmente fare i conti con la contemporaneità, essere necessariamente segno dei tempi?

"Purtroppo questa domanda presupporrebbe una risposta con percentuali, almeno per quanto attiene all’arte, ma non è possibile. Nel senso che un’opera è costituita da tanti ingredienti, da tanti strati; perché se è soltanto politica, domani sarà già vecchia politica, sarà una vecchia opera d’arte fuori dal suo contesto temporale, e non interesserà a nessuno. Deve essere costituita, quindi, da un insieme di elementi: l’aspetto politico, quello sociale, ma anche fondarsi su solidi archetipi spirituali. È in questo modo che le grandi opere restano per sempre tali, e sono in grado addirittura di anticipare e prevedere il futuro. Perché esistono idee più avanzate di quanto la società percepisca; il momento storico-sociale tende a interpretare innanzitutto quelle che sono indispensabili, necessarie, che tendenzialmente sarebbero quelle più pratiche. Ma il compito dell’arte è cogliere la necessità delle istanze più profonde e spirituali che generalmente altre discipline trascurano; e, qualora occorra, captare con più evidenza anche quelle sociali. Più numerosi sono gli strati e le chiavi di lettura, più l’opera tenderà ad essere eterna". Tutta la sua lezione, sin dall’inizio, parla di un’arte non consolatoria e non incline a una pacificazione. Quanto l’arte ha a che fare con la rottura degli schemi?

"Certamente molto. Va detto, anche da un punto di vista “commerciale”: rompere gli schemi è rischioso, perché può portare anche a dei grossi fallimenti, ma è necessario. L’artista deve imparare ad accogliere e accettare il fallimento, per poter sperimentare e per poter provare nuove idee, nuovi concetti. Il più grosso rischio per un artista è la ripetizione: il mercato ti ha accettato per quella tale cosa che hai fatto, ma insistere nel replicarla generalmente porta il fruitore, col tempo, a disinteressarsi al tuo lavoro. Occorre imparare a restare coerenti ma al contempo a sperimentare nuove cose, altrimenti il successo iniziale può facilmente svanire. E sperimentare è un’operazione ad alto rischio di fallimento, ma è anche l’unica via percorribile. Ecco perché la misura del successo di un artista è data dal numero di fallimenti che avrà e che sarà in grado di accettare e metabolizzare".

Lei come è riuscita a salvarsi dal rischio delle ripetizioni?

"Innanzitutto premetto che l’artista deve darsi completamente all’arte: il 100% non basta, occorre andare oltre. Questo io ho sempre cercato di fare, non per scelta strumentale, ma perché così andava fatto. Riguardo al rischio delle ripetizioni, l’arte performativa mi permette maggiore libertà. E quando iniziai con le mie performance, dalle primissime volte con dieci amici che venivano a vederle siamo passati a trenta - ed era un grande successo - poi a cento, e via dicendo. Questo nonostante fossero magari sempre più estreme. Oggi sono seguite da migliaia di persone: credo sia perché ho deciso di fare mio lo slogan Se mi dite di no, questo è solo l’inizio". E cosa succede se l’artista smette di essere creativo?

"Credo che un artista non possa, non debba correre questo rischio, se è un artista. A mio personale avviso un pericolo per la creatività è il fatto di avere uno studio, ovvero un posto dove stabilmente rinchiudersi e lavorare: è un luogo morto. Le idee vengono dalla vita, che va vissuta e praticata, anche immergendosi nella natura. Gli spazi devono essere aperti per avere la mente aperta, in modo che l’idea possa “entrare”: l’artista d’altronde è un medium tra l’idea e il mondo, e la trasmissione deve essere pulita, la frequenza libera. Poi credo si debba capire che l’idea non deve rendere l’artista felice: deve quasi fare paura, deve arrivare sorprendendoti e tu devi farle spazio sentendoti quasi a disagio". A tal proposito, in lei l'espressione creativa si è manifestata con il suo costante tentativo di superare i suoi stessi limiti, fisici e mentali. Quello che ha fatto finisce con l'essere anche forma di autoanalisi o lei tende a mantenersi distaccata dal sé performativo?

"L’artista non è bianco o nero, non è una cosa oppure l’altra; è come un buon piatto, con tanti ingredienti. Come dicevo prima, l’arte deve essere esperienza personale, visione spirituale e visionarietà, analisi sociale e politica, magari politicamente scorretta: questa sono io. E - lo dicevo prima - mi dedico all’arte in maniera totale: non posso quindi distaccarmi dalla me stessa artista". Una sé stessa artista che ha fatto del rompere le regole uno dei suoi elementi più importanti: probabilmente la creatività consiste proprio in questo: rompere le regole, trovando soluzioni nuove e rivoluzionarie, e non solo in arte. Quale ritiene sia il più grande creativo, il massimo rivoluzionario della storia dell'umanità?

"Questa è davvero una domanda difficile. Perché in ogni secolo c’è una persona che rivoluziona totalmente qualcosa, come fece Colombo ai suoi tempi, credendo nella teoria della terra sferica a tal punto da convincere sé stesso, i suoi uomini e la Corona Spagnola a tentare la via alternativa verso le Indie, scoprendo poi l’America. Seguire una Terra ancora ignota è un viaggio più grande che non mettere il piede sulla Luna: quindi chiunque, in ogni tempo, abbia scelto di rischiare avventurandosi in territori sconosciuti e abbia avuto successo è un grande rivoluzionario".

 

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A Venezia in occasione della sua 75ma edizione c’è “Il Cinema in Mostra - Volti e Immagini dalla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica 1932-2018”.

L’esposizione, allestita dalla Biennale di Venezia e curata dal direttore del Settore Cinema Alberto Barbera, sarà ospitata - grazie alla collaborazione di COIMA SGR, per conto del Fondo Lido di Venezia II - all’Hotel Des Bains del Lido. La scelta della location è un segnale importante: questa mostra torna infatti a ridare vita al pianterreno della storica struttura veneziana dopo la sua chiusura del 2010, reinserendola nel contesto cittadino nel modo migliore possibile: l’Hotel, infatti, è indissolubilmente legato alla storia della manifestazione Cinematografica veneziana, di cui è uno dei luoghi simbolo.

Si tratta di una mostra su un’altra mostra, di un’altra arte: ovvero, quella che dal 1932 - il più antico festival del suo genere al mondo - è la Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia. Con 86 anni di storia, per 75 edizioni svolte nel contesto della più antica rassegna internazionale d’arte ancora esistente - la Biennale di Venezia - la storia della Mostra d’Arte Cinematografica segue quasi integralmente quella del cinema stesso, che nacque solo tre decenni prima della sua istituzione. E il materiale da sempre conservato negli archivi della Biennale costituisce un tesoro di inestimabile valore storico per raccontare del cinema ma non soltanto, in un viaggio lungo quasi un secolo fatto di trasformazioni sociali oltre che artistiche. Il percorso espositivo include 680 foto stampate, 800 foto a monitor, 6 filmati con sequenze da 120 film, 5 documentari, oltre ad altri documenti e materiali dell’Archivio Storico, per lo più inediti, sull’intera avventura della Mostra. “Il Cinema in Mostra - Volti e Immagini dalla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica 1932- 2018” resterà all’Hotel Des Bains fino al 16 settembre 2018.

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È aperta al pubblico fino a domenica 25 novembre 2018, ai Giardini e all’Arsenale, la 16. Mostra Internazionale di Architettura dal titolo FREESPACE, a cura di Yvonne Farrell e Shelley McNamara, organizzata dalla Biennale di Venezia presieduta da Paolo Baratta.

«Con l'obiettivo di promuovere il "desiderio" di architettura» il Presidente Baratta ha spiegato che questa edizione pone al centro dell'attenzione la questione dello spazio, della qualità dello spazio, dello spazio libero e gratuito. Con grande chiarezza si indica il parametro di riferimento fondamentale.
«La volontà di creare FREESPACE può risultare in modo specifico come caratteristica propria di singoli progetti. Ma Space, free space, public space possono anche rivelare la presenza o l'assenza in genere dell’architettura, se intendiamo come architettura il pensiero applicato allo spazio nel quale viviamo e abitiamo.»
La Mostra FREESPACE si articola tra il Padiglione Centrale ai Giardini e l’Arsenale, includendo 71 partecipanti.

Paesi Nordici (Finlandia - Norvegia - Svezia) "Another Generosity"
L’umanità contribuisce attivamente a plasmare il mondo contemporaneo. L’impatto delle attività umane sulla geologia è così netto da alterare l’assetto del pianeta: siamo nell’era dell’Antropocene. E se l’Antropocene sembra segnare il momento in cui l’uomo acquisisce il controllo sulla natura, esso rappresenta anche un’opportunità per ripensare il rapporto elementare tra i nostri edifici e l’ecologia. L’architettura dovrebbe essere considerata uno strumento per ridefinire l’intero ciclo costruttivo, dai componenti di base ai sistemi operativi. Another Generosity indaga la relazione tra natura e ambiente edificato e si interroga su come l’architettura possa favorire la creazione di un mondo in grado di sostenerne la coesistenza simbiotica. Intende creare un’esperienza spaziale che intensifichi la nostra consapevolezza rispetto al mondo che ci circonda. È anche un tentativo di promuovere il dialogo, il dibattito e la critica, e individuare nuove modalità per plasmare il nostro mondo adottando una forma diversa di generosità, non solo tra esseri umani, ma tra esseri umani e natura.

 

 

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È aperta al pubblico fino a domenica 25 novembre 2018, ai Giardini e all’Arsenale, la 16. Mostra Internazionale di Architettura dal titolo FREESPACE, a cura di Yvonne Farrell e Shelley McNamara, organizzata dalla Biennale di Venezia presieduta da Paolo Baratta.

«Con l'obiettivo di promuovere il "desiderio" di architettura» il Presidente Baratta ha spiegato che questa edizione pone al centro dell'attenzione la questione dello spazio, della qualità dello spazio, dello spazio libero e gratuito. Con grande chiarezza si indica il parametro di riferimento fondamentale.
«La volontà di creare FREESPACE può risultare in modo specifico come caratteristica propria di singoli progetti. Ma Space, free space, public space possono anche rivelare la presenza o l'assenza in genere dell’architettura, se intendiamo come architettura il pensiero applicato allo spazio nel quale viviamo e abitiamo.»
La Mostra FREESPACE si articola tra il Padiglione Centrale ai Giardini e l’Arsenale, includendo 71 partecipanti.
 
Romania "Mnemonics"
Mnemonics rimanda alla capacità dello spazio di generare ricordi molto nitidi. La sua proiezione è lo spazio tra i grandi edifici residenziali esistente nelle città rumene. L’immagine iconica è quella dei bambini che vi giocano, creando mondi invisibili perché, a proposito di spazi di creatività e libertà, ricordiamo tutti la nostra ultima, universale, configurazione stabile: l’infanzia. Nell’attuale memoria collettiva, questo crea un immaginario comune che conserva uno spazio libero: amicizie, giochi, eventi. Oggi in Romania lo spazio tra gli edifici produce reazioni differenti nelle diverse comunità, quasi una promessa di scenari futuri relativi alla loro destinazione d’uso; e dal momento che la memoria collettiva definisce un territorio per le generazioni di oggi, Mnemonics poggia su una visione ottimistica di trasformazione. L’approccio scenografico evoca l’essenzialità dello schema di questa particolare area delle città rumene. Invita a scambiarsi i ruoli sul campo di gioco e a riflettere sulla riappropriazione dello spazio.
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È aperta al pubblico fino a domenica 25 novembre 2018, ai Giardini e all’Arsenale, la 16. Mostra Internazionale di Architettura dal titolo FREESPACE, a cura di Yvonne Farrell e Shelley McNamara, organizzata dalla Biennale di Venezia presieduta da Paolo Baratta.

«Con l'obiettivo di promuovere il "desiderio" di architettura» il Presidente Baratta ha spiegato che questa edizione pone al centro dell'attenzione la questione dello spazio, della qualità dello spazio, dello spazio libero e gratuito. Con grande chiarezza si indica il parametro di riferimento fondamentale.
«La volontà di creare FREESPACE può risultare in modo specifico come caratteristica propria di singoli progetti. Ma Space, free space, public space possono anche rivelare la presenza o l'assenza in genere dell’architettura, se intendiamo come architettura il pensiero applicato allo spazio nel quale viviamo e abitiamo.»
La Mostra FREESPACE si articola tra il Padiglione Centrale ai Giardini e l’Arsenale, includendo 71 partecipanti.
 
1 Austria "Thoughts Form Matter "
Thoughts Form Matter va visto e inteso nel contesto di una sempre maggiore attenzione dedicata agli spazi intermedi e liberi. I contributi di Henke Schreieck, LAAC e Sagmeister & Walsh interpretano il concetto di FREESPACE come un costrutto che è insieme spaziale e spirituale, come un sistema dinamico complesso e come un ambito versatile plasmato dalla coesistenza. Tre installazioni spaziali, che penetrano in parte l’una nell’altra, concretizzano e visualizzano concetti quali “deviazione”, “atmosfera” e “bellezza”. Thoughts Form Matter è un appello a riconoscere il potere dell’architettura in quanto indagine intellettuale e alla libertà di creare spazi liberati da vincoli funzionali ed economici.
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La 57ma Esposizione internazionale d'arte si intitola "Viva Arte Viva".

Un’edizione della Biennale di Venezia che si caratterizza per il suo focus insolito: l’Artista stesso.
È proprio questo il senso dato dalla curatrice, Christine Macel al titolo di quest’anno: un’indagine, un racconto della componente più viva dell’arte. Ovvero, l’Artefice.

Come dice lo stesso presidente Paolo Baratta, la Biennale - che, a prescindere dal tema di volta in volta scelto, pone una particolare attenzione al dialogo tra gli artisti e il pubblico - porta quest’anno al centro il dialogo stesso. E lo fa celebrando chi l’arte la crea, permettendo a noi tutti di accrescere e dilatare la nostra prospettiva.

Una sorta di neo-umanesimo insomma: che celebra non tanto l’uomo in quanto tale, ma la capacità dell’uomo - tramite l’arte - di non essere dominato dalle forze avverse della realtà.
E in cui l’atto artistico diventa atto di resistenza, di liberazione, di generosità; un gesto pubblico, che l’artista compie per tutti.
Nove sono i capitoli, ideali padiglioni trasversali e transnazionali, che - snodandosi lungo un percorso che vuole rappresentare un viaggio dall’interiorità all’infinito - riuniscono in sé altrettante “famiglie di artisti”, affiancandosi ai padiglioni tradizionali di 87 paesi.

Dall’indagine sul rapporto tra otium - inteso come momento in cui ci si lascia andare all’ispirazione - e negotium, ovvero l’aspetto professionale dell’attività raccontato nel primo padiglione, quello degli artisti e dei libri fino all’ultimo, quello del Tempo e dell’Infinito, che si focalizza sul rapporto con il flusso temporale e l’inevitabile morte, ogni approccio degli artisti con la vita, e con la sua rappresentazione, viene approfondito.

La celebrazione avviene anche tramite una serie di eventi paralleli che mettono in atto il dialogo tra l’artefice e lo spettatore: dalla Tavola Aperta, un pranzo bisettimanale con gli artisti trasmesso anche in streaming web, ai video di Pratiche d’Artista, che illustrano il suo modus operandi, fino al progetto La mia Biblioteca, che diventa reale ed ospita, nei giardini Stirling, le letture preferite dagli artisti.

Notevole è anche il fatto che dei 120 artisti invitati, ben 103 siano qui alla Biennale per la prima volta: segno evidente della fiducia riposta nei confronti dell’arte; o, per meglio dire, degli artisti.
La Biennale a Venezia sarà aperta al pubblico fino a domenica 26 novembre 2017.

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La più grande consolazione dell'essere italiani è quella di poter ricorrere alla nostra memoria. Il presente non è dei migliori, e tutto sommato nemmeno il passato prossimo; solitamente serve ricorrere al passato remoto, quando non ai trapassati, per ricordarci dell'orgoglio dell'essere italiani, almeno dal punto di vista culturale ed artistico.

In questo senso, “Codice Italia”, la mostra curata da Vincenzo Trione allestita presso il Padiglione Italia della Biennale di Venezia 2015, è un esempio ben riuscito di quella che la funzione di questa Memoria dovrebbe essere. Ovvero, l'essere la solida base da cui far partire lo slancio verso il futuro.

“In questo vivere nel tempo siamo come l'atleta, che per fare un balzo avanti deve sempre fare un passo indietro, se non fa un passo indietro non riesce a balzare in avanti”: in questa frase - dal sapore vagamente maoista, in questo senso allineata con le tinte rosse che caratterizzano la Biennale di quest'anno - che campeggia sui muri del Padiglione Italia è espresso proprio questo concetto. Ed il lavoro compiuto da Trione e dagli artisti presenti, ognuno con un'opera site specific, opera in maniera efficace in questa direzione.

La mostra si articola in tre capitoli: l'operazione compiuta da artisti italiani di varie formazioni ma accomunati dalla tensione verso la sperimentazione combinata con il ricorso alla memoria storico-artistica del nostro Paese, che sono stati invitati a realizzare opere simboliche e poetiche accompagnate da Archivi della Memoria ispirati all'Atlante di Warburg; l'omaggio di tre artisti stranieri alla nostra Arte; una videoinstallazione che ospita una riflessione di Umberto Eco relativa alla “reinvenzione della memoria”, tema centrale di “Codice Italia”.

 

Mimmo Palladino, Senza titolo, 2015, carbone su muro e fusione in alluminio, schermo a cristalli liquidi e vetro resina

 

Abbiamo rivolto tre domande a Vincenzo Trione curatore del Padiglione Italia.

Come si colloca il tema della Memoria da voi scelto per il Padiglione nell'ambito dell'indirizzo tracciato da Okwui Enwezor per la Biennale?
Con una forma di dialogo, ma anche di indipendenza: Enwezor ha scelto un percorso in gran parte legato al senso della frammentazione della profezia, muovendo da un riferimento a Benjamin. Nel mio caso, cerco di fare un lavoro sul tema della riattivazione della memoria. Una memoria intesa quindi non in senso anacronistico e nostalgico, ma come fondamento per dialogare continuamente con il presente e prefigurare scenari possibili. Quello che mi ha guidato è la scelta di artisti che pensano l'immagine e l'opera come spazi all'interno dei quali i riferimenti alla storia dell'arte sono in costante dialogo con il bisogno di innovare e di sperimentare sui linguaggi.

Il ricorso alla Memoria, per come paiono intenderlo gli artisti presenti al Padiglione Italia, sembra quasi più di stampo dissacratorio che non qualcosa che assomigli a un omaggio. È questo l'atteggiamento necessario per ripartire dai classici nella contemporaneità?
Si. L'unico modo per misurarsi con i classici, con i padri dell'arte sta probabilmente nell'avviare un dialogo aperto ma sempre inquieto e mai omaggiante, sfidando i riferimenti alla storia dell'arte e alla classicità con un gusto profondo per la profanazione. Il bisogno che accomuna tutti gli artisti è questo: non di innalzare la storia dell'arte su un piedistallo, ma di acquisirla e collocarla dentro altri circuiti di senso, dentro altri spazi. E, soprattutto, con l'atteggiamento di chi della storia dell'arte fa ciò che vuole, prendendosi quindi il gusto di dissacrarla.

 

Vanessa Beecroft – Le Membre Fantôme – 2015

 

Come ritiene l'approccio degli artisti presenti al Padiglione Italia verso i nuovi media come parte del mezzo espressivo?
In molti autori il rapporto con i media è fortissimo. Si parte dall'utilizzo del supporto fotografico nel caso di Antonio Biasiucci e di Paolo Gioli; Di Gioli, inoltre, presento anche due film che sono un omaggio alla storia delle avanguardie del primo novecento. La matrice fotografica è anche all'origine, per esempio, del lavoro di Giuseppe Caccavale. La videoinstallazione è un tema che si ritrova in Aldo Tambellini e in Andrea Aquilanti. È presente in mostra un film in tre parti come quello di Davide Ferrario su Umberto Eco. Il lavoro di Peter Greenaway è un omaggio alla storia dell'arte, ma risituata attraverso una videoinstallazione che è a metà strada tra il videoclip e l'opera d'arte totale. E Kentridge pensa i suoi disegni come degli sketch per un possibile film.
Ritengo quindi che l'approccio sia molto attivo. Peraltro, quello del rapporto con i nuovi media è un tema che mi sta molto a cuore: insegno arte e nuovi media, è la mia disciplina.

 

Marzia Migliora, Stilleven/Natura in posa, 2015, installazione materiali vari

 

 

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Biennale 2015: si parte! Dal 6 all’8 maggio le tre giornate di inaugurazione della 56^ Esposizione d’Arte di Venezia dedicate alla stampa e agli operatori del settore.

L'inviata di ArtsLife, Clelia Patella, vi propone di seguito 5 artisti per cinque opere in anteprima:

 

1. Il Raques Media Collective, trio di artisti multimediale indiano, ha allestito all’ingresso dei Giardini un’opera in cui una statua raffigurante un Papa (senza volto) è posta su un piedistallo ai cui fianchi appaiono le scritte “But he did not want to shoot the elephant” e ” And then down he came, with a crash that seemed to shake the ground” . Le due frasi sintetizzano in maniera estrema il racconto/saggio orwelliano “Shooting an Elephant” in cui il narratore si ritrova costretto suo malgrado, in India, ad uccidere un elefante fuori controllo, perchè richiesto dal suo ruolo di poliziotto coloniale inglese. Tale metafora dell’imperialismo britannico – tematica particolarmente sentita da Raques per questioni storico e culturali, pare voler porre un pontefice senza viso (e quindi personalità, di cui rimane il ruolo e la figura simbolica) nei panni del poliziotto, le cui remore morali, laddove ci siano, non cambiano il proprio ed altrui destino.

 

2. Andreas Gursky è un fotografo tedesco balzato agli onori della cronaca quando, nel 2011, la stampa della sua fotografia “Rhein II” venne battuta da Christie’s per 4,3 milioni di dollari, diventando la fotografia più costosa mai venduta. Gursky ritrae “paesaggi” in grande formato, dai colori generalmente molto vivaci, raffigurando grandi palazzi ed edifici, luoghi dall’ordine caotico (come i supermercati), sale di contrattazione finanziaria particolarmente affollate. Il tema centrale è quello della globalizzazione, espresso senza alcun giudizio né messaggio morale, ma immortalato per consentire una riflessione completamente soggettiva da parte dell’osservatore. Fotodocumentari, quindi, quasi nature morte, in cui alla monumentalità dello scatto e di quanto impresso si contrappone la maniacalità verso l’attenzione al particolare minuzioso.

 

3. Adrian Piper, artista concettuale statunitense che vive a Berlino la cui opera rivolge la propria attenzione a tematiche quali razzismo, sessismo e “l’altro, il diverso” in generale, espone quattro lavagne scolastiche con scritta a mano – venticinque volte su ognuna – la frase “Everything will be taken away”.

La sensazione è quella di un monito espresso tramite una forma che rievoca in maniera forte e immediata il senso della punizione e della frustrazione o più precisamente dell’ineluttabilità. La solidità dell’ardesia garantisce alla volatilità del gesso una sorta di “relativa eternità” che resterà tale fino al momento in cui la polvere – di gesso, e non solo – verrà resa alla polvere.

 

4.  Bruce Nauman, scultore, fotografo e artista multimediale statunitense, è presente alla Biennale (dove nel 1999 vinse il Leone d’Oro) con l’opera “American Violence”, uno dei suoi “neon”, creato tra il 1981 e il 1982, nel pieno del periodo in cui l’opera dell’artista – considerato uno dei padri dell’arte concettuale americana – assume connotazioni politiche più dirette e definite: sono di questo periodo opere in cui i temi sono la violenza e la tortura dei regimi totalitari, ed in seguito le connessioni tra sesso, morte e violenza, come espresso da questa installazione, la cui forma richiama in maniera abbastanza evidente una svastica in cui i quattro bracci uncinati paiono “cantare”, urlandole, le quattro linee di ritornello di una lirica che ricorrono ciclicamente, e che sinesteticamente evocano un brano synthpop, seppur più unpop che non popolare.

 

5. Kutluğ Ataman, filmmaker e artista di origine turca, pone la sua attenzione nel documentare le vite degli individui, spesso di quelli ai margini, testimoniando – a cavallo tra realtà e fiction – quali possano essere i meccanismi evolutivi delle identità delle persone. L’opera “The Portrait of Sakip Sabanci” (2014), da lui portata alla Biennale, intende rendere testimonianza della vita dell’uomo d’affari e filantropo turco Sakip Sabanci, morto nel 2004, tramite quasi diecimila schermi LCD ognuno raffigurante una persona che ha avuto in qualche modo occasione di incrociare il proprio percorso con il businessman. Collaboratori, familiari, sostenitori, tutti paiono voler
essere presenti nell’onorare la memoria di Sabanci, la cui attenzione verso il prossimo è la chiave di lettura per cui un suo ritratto sia composto dalla presenza di ognuna di queste persone.

 

 

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