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I sogni deformati di Dario Puggioni
08 Gen

I sogni deformati di Dario Puggioni

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È spesso difficile, per i giovani talenti italiani, riuscire a farsi spazio nel nostro Paese. Non perché manchino stimoli per il giusto fermento creativo, ma piuttosto perché le gallerie stesse sembrano tenere in poca considerazione la possibilità di investire su nuovi artisti. Se a questo uniamo l’aspetto apparentemente decostruzionista di Dario Puggioni – che entra inevitabilmente in conflitto con quello che in Italia ci si aspetta da un “ritrattista” – appare chiaro il motivo che lo ha spinto ad ingrandire le fila di quella “fuga di pennelli” che spesso porta gli stessi a cercare una dimensione più consona; come può essere, nel caso del nostro, quella di Berlino.

La decisione di partire è maturata appena uscito dall’Accademia di Belle Arti di Roma, nel 2008, alla fine di un percorso di studi che ha ripreso dopo alcuni anni sabbatici perché incapace di resistere alla pressione delle “visioni” che gli si presentavano in sogno come durante la veglia: immagini influenzate da passioni antiche dell’artista, come lo studio delle scienze naturali ed in particolare dell’entomologia, che – insieme con le inquietudini e le domande personali cui cercava risposta – lo hanno portato a immaginare delle ipotetiche evoluzioni del corpo umano verso la formazione di nuovi organi di senso.

I volti trasformati di Puggioni, se da un lato ricordano le opere di artisti della sua generazione dallo stesso apprezzati, come i “Pie Face” di Adrian Ghenie o i visi oltraggiati del nostro Nicola Samorì, dall’altro se ne distanziano perché in essi sono preponderanti l’aspetto decostruttivo e quello dissacrante; in questo senso, tornano maggiormente alla mente artisti come Odd Nerdrum (che Puggioni ammira in modo particolare) o Gottfried Helnwein.

La ricerca di Dario Puggioni è iniziata dopo che si faceva insistente una domanda. Ci dice: “Qual è il confine, il limite che c’è fra noi e il mondo? Riuscii a trovare risposta in un paio di testi di Gilles Deleuze, che parlavano appunto di una “Logica della sensazione” attraverso il lavoro di Bacon. Il limite siamo noi, o meglio lo è il nostro corpo”

Si parla quindi di un corpo fisico che contiene il nostro Io, ma che così facendo – di fatto – lo “contiene” anche nel senso che ne limita l’espansione verso l’esterno, e ne tarpa la sensibilità. I corpi, i visi di Puggioni cercano un nuovo modo di percepire la realtà. Come insetti in rapida evoluzione, i suoi umani sviluppano nuovi organi, che nascono attraverso gli strati della figura ritratta (“dipingo vari layer uno sopra l’altro, e li metto o li tolgo a seconda delle sensazioni. Scavando all’interno degli strati, come un archeologo, vado oltre le nostre sovrastrutture e cerco il nucleo essenziale, la vera essenza dell’uomo”) e la deformano, la allungano, alla ricerca di una nuova sensibilità.

Si tratta di tentativi di evoluzione che a volte sono vincenti, e che spesso falliscono, portando solo a deformità che però rappresentano a loro volta il punto di partenza verso una nuova evoluzione.

In questo senso, la ricerca di Puggioni non è tanto orientata verso il dolore, o verso la sconfitta ed il fallimento – che sono comunque aspetti che l’artista tratta – quanto verso il tentativo di superare una fisicità che limita, andando oltre il ritratto e oltre il corpo, raffigurando di volta in volta il risultato di una nuova evoluzione, che sia vincente o che non lo sia.